Il bambino adottato e il suo modello ideale

Rivista di Psicosintesi Terapeutica – Anno IV, Numero 7, Marzo 2003

IL BAMBINO ADOTTATO E IL SUO MODELLO IDEALE

di Daniela Ducci

The author discusses the tourt-court validity of the Institute of Adoption. She underlines the necessity for adoptive couples to have specific competences, which could be clarified and supported by the knowledge and the use of the technique of the Ideal Model, proposed by Psychosynthesis.

Nel 2000 sono stati adottati in Italia circa 1700 bambini nati sempre in Italia e 3000 provenienti da altri paesi, ed è un numero che sta crescendo di anno in anno per quanto riguarda i bambini che vengono dall’estero.
L’istituto dell’adozione è la risposta migliore per tutti quei bambini che avendo perduto la famiglia di origine hanno comunque diritto a tutto ciò che si può trovare in una famiglia e non in un istituto: cure, protezione, rapporti affettivi personali ed esclusivi, modelli educativi; ma anche l’adozione presenta molte difficoltà e va a mio avviso smitizzata come soluzione miracolosa per tutte le situazioni di abbandono di un minore.
Al di là delle caratteristiche della famiglia adottiva e della sua capacità di offrire affetto, sicurezza e stabilità, è infatti importante valutare anche quanto questa famiglia sia in grado di accompagnare il bambino nel difficile percorso che è costituito dalla esperienza di essere stato abbandonato e poi adottato, esperienza che implica non solo una grave ferita a livello emotivo-affettivo, ma anche una vera e propria “perdita del mondo”, soprattutto per i bambini adottati all’estero. Quando si parla dell’istituto dell’adozione attribuendovi un valore positivo assoluto, è perché l’attenzione si focalizza sull’aspetto riparativo, sulla “fortuna” che il bambino abbandonato ha avuto nel trovare una nuova famiglia che lo ama, e viene messa in secondo piano la difficoltà, talvolta la drammaticità, di questa esperienza. L’adozione “non va valutata solo come intenzione generica di procurare una famiglia a un bambino, ma va considerata anche e sopratutto da un punto di vista psicologico che tenga conto sia delle effettive esigenze del bambino, sia dalla reale possibilità che un inserimento in un nucleo adottivo abbia di soddisfarle” (A.Dell’Antonio, pag. 22).
Quando il bambino e la sua nuova famiglia si incontrano, il rapporto deve essere costruito: è questo il momento delicatissimo dell’accoglimento nel quale persone sconosciute diventano per il bambino i nuovi genitori; è importante farlo sentire desiderato, comunicargli che i genitori adottivi hanno messo molte energie per averlo, spesso hanno fatto un lungo viaggio per andarlo a prendere; è importante anche che il bambino, nei modi più idonei a seconda dell’età, senta che c’è anche un vero interesse nel conoscere lui, i suoi bisogni e i suoi sentimenti.
Dopo questo primo momento, e quasi parallelamente, si attiva nella famiglia adottiva un comportamento riparativo: l’attenzione si orienta sulle mancanze che il bambino ha subìto, sia a livello materiale (cibo, accudimento, protezione), sia a livello affettivo (attaccamento, amore, contatto fisico), spesso anche con sensibilità non solo a quanto è mancato al bambino, ma anche ai traumi che ha subìto. Questa prima fase è relativamente facile per una coppia adottiva, perché è facile essere sollecitati su questi aspetti: nella quasi totalità dei casi questi bambini vengono presi in istituto e in paesi “svantaggiati” ed è mancato loro tutto, spesso anche una alimentazione adeguata; può sembrare alla famiglia adottiva che dare al bambino ciò che gli è mancato sia sufficien­te per lui. Questo aspetto, che coinvolge prevalentemente il livello emotivo, è così forte nella coppia adottiva che può finire per diventare il più importante se non addirittura l’unico, a danno della dimensione psicologica, che non riguarda solo la compensazione delle esperienze vissute, ma anche la loro rielaborazione: il bambino che cambia i genitori non ha solo bisogno di essere accolto da una coppia disponibile, ha bisogno rielaborare il suo passato, le sue esperienze, i suoi modelli sia familiari che culturali; ha bisogno di sanare le sue ferite affettive ma anche di ri-orientarsi fra passato e presente per poter progettare in modo costruttivo il suo futuro.
Spesso la famiglia adottiva focalizza molto questa prima fase della rela­zione col figlio (accoglimento, riparazione), trascurando poi l’ultima (trasformazione), si impegna fortemente nel dare amore al figlio attraverso le cure fisiche, le manifestazioni affettive, le occasioni ludiche, ma tutta l’attenzione viene concentrata nel fare star bene il bambino “ora”, anche con intenzioni riparative rispetto a ciò che il bambino ha vissuto “prima”; in questo tipo di relazione la famiglia adottiva sente di costituire un cambiamento totale e positivo, sente di aver liberato il bambino da una famiglia, da un passato e da un luogo che sono da dimenticare, e si identifica nel ruolo di salvatrice, inconsciamente anche aspettandosi un sentimento di gratitudine. In questo modo trasmette al figlio il messaggio che la sua vita è cominciata quando si sono incontrati, e non c’è niente di importante nel suo passato, nessun modello che vada salvato e acquisito.
“Anche il colore della pelle e le diversità fisiognomiche non sempre sono sufficienti a far comprendere ai genitori adottivi che il bambino è una persona con una sua origine e una sua storia” (Atti 10° Convegno nazionale Il Forteto, 1998).

Misconoscere o svalutare il passato del bambino e il suo paese, dà ai nuovi genitori sicurezza sul legame affettivo, e collude col loro bisogno di avere un figlio che appartenga loro totalmente, sopratutto se non hanno potuto avere figli naturali e se hanno vissuto questo come un danno narcisistico che non hanno rielaborato; l’esperienza ci insegna che nella maggior parte dei casi la motivazione più forte nella coppia adottiva è “la necessità della coppia di sentire il bambino come parte di sé” (Minori Giustizia, 1998, pag. 27). Così il figlio adottivo è inconsciamente chiamato a riempire il vuoto del figlio “non nato”, e i genitori lo amano come se fosse sempre stato con loro, rimuovendo o non valorizzando le sue radici.
Con queste fantasie dei genitori, le fantasie del bambino possono collude­re in due modi diversi:

1. Il bambino accetta di dimenticare il suo passato, lo rimuove, cerca di conformarsi ai nuovi modelli completamente. Nella mia pratica di lavoro come giudice onorario del Tribunale per i Minori, ho conosciuto diversi bambini, anche già scolarizzati nel loro paese di origine, che dicono di non ricordare la loro lingua, non la vogliono parlare e addirittura non vogliono sentirla parlare, il che ci aiuta a capire con quanto sforzo cercano di rimuovere le loro radici anche culturali. Questi bambini sono apparentemente sereni, obbedienti, direi identificati in una sub-personalità di bambino pieno di gratitudine per essere stato “salvato”; e i genitori si sentono molto gratificati.
A queste condizioni il bambino raggiunge una accettabile forma di adattamento, che però è solo il frutto di una adesione apparente al modello che l’ambiente richiede: da un punto di vista psicologico non c’è stata nessuna crescita e parte della personalità del bambino resta scissa. “Egli gradatamente ‘costruisce’ una immagine di sé, da proporre agli altri e a cui adeguare il proprio comportamento, ed una identità più profonda, non ben delineata e nem­meno conosciuta da lui stesso, poco aderente alla realtà, in cui continuano ad operare bisogni e aspettative che ormai non hanno possibilità di realizzazione concreta” (Dell’Antonio, pag. 34).
In questo caso può capitare che il ragazzo o la ragazza che non avevano mai dato problemi, e il cui inserimento nella nuova realtà era sembrato facilissimo, cada in un vuoto depressivo alle soglie della adolescenza, proprio perché a questa età si fa presente con forza il tema della identità e del progetto esistenziale (“Chi sono io?”, “Cosa voglio fare della mia vita?”, “Che tipo di uomo, o donna, vorrei essere?”, ecc.). Alcuni drammatici fatti di cronaca, anche recenti, hanno avuto come protagonisti adolescenti appunto, adottati nella prima infanzia; in un caso si è trattato purtroppo di un suicidio. Di questi fatti la cronaca colpevolizzava lo stato di emarginazione in cui la società lascia bambini di altre culture, mentre a mio avviso il vissuto di emarginazione se ci può essere diventa drammatico e intollerabile solo se corrisponde a un vissuto personale di “non appartenenza”, e sopratutto se questo va a toccare autoimmagini del bambino da lui stesso svalorizzate o rimosse: quando il ragazzo si sente integrato e parte della sua famiglia, può affrontare e risolvere i suoi eventuali conflitti nel sociale, diversamente si sentirà completamente solo e potrà non sopportarlo.

2. Un’altra possibilità è che il bambino resti invece identificato con il suo passato, che è un passato “cattivo” in tutti i sensi: sia perché ha vissuto delle situazioni negative, sia perché lui stesso giustifica il suo essere stato abbandonato come una colpa personale (“Se i miei veri genitori non mi hanno voluto, significa che non sono degno di amore”). Quando il bambino adotta questa strategia, l’affetto dei genitori adottivi lo destabilizza (“Se io sono cattivo perché loro mi amano? E se non lo sono perché non mi hanno amato i miei veri genitori?”).
Per salvare i genitori biologici preferirà mettere in atto un comportamento reattivo, fortemente provocatorio: quasi una sfida per farsi abbandonare di nuovo. Non sempre questo è negativo, perché può obbligare i genitori ad approfondire i bisogni del figlio, sollecitati dalle difficoltà della relazione, ma risulta che molte delle adozioni (fino al 25% in alcune regioni, per i ragazzi più grandi) non vadano a buon fine e si risolvano in un nuovo abbandono del bambino, che in questo caso si trova di nuovo abbandonato, di nuovo in istituto, e questa volta in un paese straniero.

Si potrebbe pensare che molte di queste difficoltà siano superabili se il bambino viene adottato quando è molto piccolo, così ha meno storia e nessun ricordo; in realtà il primo anno di vita è già fondamentale, e le esperienze pre­ verbali, anche se non accessibili alla memoria, sono ancora più influenti di quelle successive; inoltre ogni bambino deve essere informato, appena possi­bile, che la sua nascita è avvenuta altrove, e questo “altrove” quando non è ricordato può essere riempito da qualunque fantasia o fantasma. Infine ogni individuo ha la sua eredità razziale e genetica, che si esprime come una importante sub-personalità, anche se viene adottato nei primi mesi di vita.
M., una bambina di 12 anni, adottata quando aveva solo 2 mesi in Sud America, non è mai più stata nel suo paese di origine, ma si è “ispirata” a un film ambientato in quel contesto, anche se collocato nel secolo scorso, per far­si crescere i capelli e cambiare pettinatura, ispirandosi appunto ai modelli femminili del film e dichiarandolo apertamente. La stessa bambina, regolarmente scolarizzata a 6 anni e dopo aver frequentato la scuola materna, non ha mai creato legami di amicizia con nessuna compagna, e accetta solo quelle (poche) non europee.
Dunque perché una adozione funzioni e possa garantire al bambino non solo una vita dignitosa ma la possibilità di crescere e realizzarsi, i genitori adottivi devono avere la consapevolezza che non basta dare una famiglia a chi non ce l’ha, ma che è necessaria una particolare competenza e sensibilità sul percorso che deve fare il figlio e loro insieme a lui. Insisto su questo, perché una delle convinzioni più diffuse nelle coppie che decidono di adottare è che la genitorialità adottiva sia uguale a quella biologica, e comporti le stesse capacità di ruolo. In realtà l’adozione comporta dei rischi e delle difficoltà che non ci sono nella genitorialità biologica. Per la coppia genitoriale si tratta in entrambi i casi di accogliere un bambino che prima non c’era, ma il bambino che accolgono è una persona che ha già una storia; e per il bambino non si tratta solo di “trovare” dei genitori, ma di “cambiarli”, di “sostituire” delle relazioni; la coppia adottiva dovrebbe avere, oltre al coinvolgimento affettivo e al desiderio di acquisire un ruolo genitoriale, anche la capacità di elaborare col figlio la storia della sua e della loro vita.
Un aiuto alla comprensione di questa esperienza da un punto di vista psicologico, ci viene da alcuni concetti della Psicosintesi, e in particolare dalla teoria e dalla tecnica del “Modello Ideale”. Questa tecnica consiste nella creazione consapevole dell’immagine della persona che possiamo e vogliamo diventare; questo atto creativo parte dalla constatazione che un modello, in parte inconscio, esiste in ognuno di noi, come orientamento della coscienza verso una sintesi almeno parziale della personalità, indispensabile per armonizzare le nostre potenzialità e le esigenze esterne. La progettazione del modello inizia con la presa di coscienza delle nostre autoimmagini: “Dobbiamo renderci conto che ognuno di noi ha entro di sé varie immagini di sé, o, più esattamente, della propria personalità. Tali immagini sono diverse non soltanto per natura e origine, ma sono spesso in conflitto fra loro. L’acquista­ re chiara consapevolezza di queste varie immagini, è una necessaria preparazione alla psicosintesi” (R. Assagioli, pag.141).
La formazione di queste autoimmagini inizia molto precocemente nel bambino, che fino dai primi anni di vita introietta i modelli esterni attraverso l’imitazione, primo importante strumento di apprendimento. Ci sono poi i suoi talenti personali, le sue caratteristiche tipologiche, che tendono a cercare una forma adeguata e accettata per esprimersi. Nel gioco e attraverso il gioco, il bambino struttura comportamenti, schemi di pensiero, sentimenti e valori, si identifica con gli adulti più significativi e introietta le loro aspettative, le loro conferme e disconferme, che diventano nel tempo più articolate e possono essere anche diverse fra loro, intanto che diventano più numerose.
La complessità di questo gioco di specchi può essere drammatica per un bambino anche piccolo che ha abbia vissuto una prima parte della vita in un contesto familiare e sociale, in un luogo, che abbia acquisito determinati modelli relazionali e comunicativi, e che poi sperimenti un totale cambiamento e si trovi in un mondo col quale non condivide, talvolta, neanche l’eredità razziale.
Per un bambino adottato quello che per noi è un faticoso processo di crescita, da quello che credo di essere a ciò che posso veramente diventare, può diventare un percorso impossibile: i suoi primi e più importanti modelli sono perduti, scomparsi, talvolta rimossi, e, cosa ancora più drammatica, quasi sempre fortemente svalutati, e sostituiti da altri. Inoltre i bambini che proven­gono da altri paesi, quasi sempre, dopo l’abbandono da parte della famiglia hanno vissuto una fase istituzionale, anche di anni, e nell’istituto hanno creato nuovi rapporti, anche importanti e significativi, hanno trovato nuove figure di riferimento, amicizie talvolta, e nuovi modelli di identificazione, che di nuovo perdono. Inoltre non perdono solo le relazioni personali, ma anche l’ambiente naturale, la lingua, il paese, la cultura, le abitudini alimentari. Ricordo un ragazzino di 8 anni circa, adottato in Siberia, che per mesi ha continuato a chiedere perché non ci fosse la neve, e quando sarebbe venuta…
Infine questi bambini perdono tutto lo schema di riferimento delle imma­ gini che hanno di sé: come mi vedo, come mi vedono gli altri, come mi vogliono gli altri, come voglio che gli altri mi vedano. Se la famiglia adottiva si concentra solo sul presente e sul futuro del figlio, scotomizzando il suo passato, gli rende difficile o impossibile sanare la frattura e la conflittualità che vive nella sua esperienza e dentro di sé; per poter elaborare in futuro il proprio modello ideale, come espressione della propria autenticità, e potersi realizzare come individuo, questa frattura deve essere rielaborata e inserita in un processo di trasformazione al servizio dell’Io, e questa operazione non è possibile, se non con l’aiuto dei nuovi genitori, che non dovrebbero rappresentare la salvezza, ma piuttosto un ponte fra passato e futuro, e un aiuto costante per il figlio ad armonizzare i suoi vissuti spesso molto difformi e conflittuali.
Una prima convinzione che dovrebbe guidare i genitori adottivi è che “compensare” il bambino di quanto gli è mancato non è sufficiente, e può anzi risolversi in una esperienza negativa. L’affetto, le cure e tutte le altre possibilità offerte, dovrebbero essere sempre accompagnate da una domanda: dove e come colloca il bambino queste esperienze? Come le può mettere in relazione con le esperienze passate? Come le può utilizzare? Per quanto possa sembrare paradossale, un ambiente di vita “troppo” buono e quindi troppo lontano da quello precedente, può risolversi non in una opportunità ma in un conflitto, se i nuovi modelli sono inconciliabili con quelli passati e le autoimmagini del bambino sono incompatibili con le nuove sollecitazioni (come si armonizza l’immagine di sé come bambino trascurato, con quella di bambino che ha diritto a chiedere tutto? E come conciliare l’immagine di “duro” che non ha bisogno di nessuno, con quella di bambino affettuoso che ti viene richiesta?). Quando nel bambino si agitano questi conflitti, può manifestare disagio, i genitori rispondono offrendo ancora più disponibilità, e il disagio aumenta, in un circolo vizioso.
È importante che i genitori abbiano consapevolezza di questo conflitto interno del figlio (possibilmente attraverso la consapevolezza dei propri conflitti), per poterlo aiutare a crescere: “… occorre non soltanto ricercare i traumi o impressioni del passato, ma anche, anzi sopratutto, analizzare la situazione presente. È la situazione attuale, esistenziale, in cui le varie immagini o modelli di sé (che spesso costituiscono delle vere sub-personalità) coesistono e lottano fra loro. Questi conflitti suscitano non di rado nel soggetto un senso di incertezza, di smarrimento, e possono produrre vari disturbi neuropsichici” (R. Assagioli, pag.143).
Una ragazzina di 13 anni, che chiameremo Anna e che viene da un paese dell’Est europeo, è stata adottata un anno fa da una coppia che senza dubbio presenta “le migliori intenzioni”, ma Anna, che è intelligente e matura, ha presentato problemi di comportamento tali da aver reso necessario l’intervento di emergenza del 118, e attualmente segue una terapia farmacologica. Anna è consapevole della sua sofferenza e molto lucida. Mi dice in sintesi: “I miei nuovi genitori sono bravi, ho paura di perdere anche loro, ma mi mancano il mio paese, la mia gente, i miei amici (ricorda in particolare una famiglia alla quale era stata affidata); voglio tornare nel mio paese ma con chi? Mi piacerebbe se i miei nuovi genitori potessero trasferirsi con me, ma naturalmente questo è impossibile. Vorrei che almeno potessimo andarci ogni anno, in vacanza, potrei far loro conoscere i miei amici, ma loro non mi ci portano perché, secondo me, hanno paura che poi non vorrei tornare in Italia, e potrebbe­ro perdermi. E così la scorsa estate, pensando di farmi felice, mi hanno portato a Parigi… non me ne importa niente di Parigi!”.
Anna apprezza la nuova famiglia, valorizza le capacità affettive dei geni­tori e le possibilità che le hanno offerto, e non vuole perderli; però al tempo stesso ha nostalgia del suo paese, della sua lingua, e soprattutto sente che c’è una parte di lei che è come ignorata nella sua nuova vita; ha il senso profondo di una frattura che la fa soffrire e intuisce che un confronto diretto fra il suo vecchio mondo e il nuovo (il viaggio) potrebbe aiutarla. Ma sente anche che non può condividere fino in fondo questo disagio con i genitori, perché per timore di perderla cercano di allontanarla dal suo passato. Nella misura in cui vuol salvare i ricordi si sente “cattiva” con coloro che fanno parte del suo presente; ma non può essere quello che i genitori si aspettano da lei, se non rinunciando a una parte della sua personalità.
Il passato del figlio dovrebbe essere, per così dire, sempre nella mente dei genitori, certi che non è possibile andare verso una piena autorealizzazione se non partendo dalle proprie radici, dalla propria nascita. In questa prospettiva i genitori adottivi dovrebbero disidentificarsi dal livello emozionale, che da solo non basta per una buona genitorialità, e sopratutto disidentificarsi dal desiderio di avere un figlio “tutto mio”, per valorizzare la nascita del bambino e la sua famiglia biologica, certi che “il pensiero della gratitudine per i genitori in quanto tali, è la condizione necessaria-purtroppo non sufficiente – per la valorizzazione di sé… E, viceversa, misconoscere il merito che i genitori hanno nell’aver scelto di procrearci, implica sottovalutare noi stessi” (Minori Giustizia, 1999, pag.14).
Una particolare attenzione va posta nel non svalutare le origini del bambi­no: la sua famiglia biologica e anche il suo luogo di provenienza; a livello emotivo questo non è facile, perché il passato di ogni bambino dato in adozione è, per forza di cose, un passato drammatico, e viene spontaneo valutare come “negativi” i suoi primi modelli, anche con piccole osservazioni alle qua­li l’adulto può non dare la dovuta importanza, ma che certo non sfuggono al figlio; la madre adottiva di un bambino di 8 anni circa, brasiliano, dice davanti a me e al figlio: “Il Brasile è molto bello, sì, ma non dove stava lui!”.
La svalutazione può nascere da due diverse motivazioni: una buona nelle intenzioni, di allontanare velocemente il bambino dai suoi brutti ricordi (non hai perso niente… stai meglio qui con noi); l’altra più egoistica, come desiderio di confermare ulteriormente che il bambino appartiene completamente al nuovo nucleo. In realtà non ci potrà essere per lui nessuna vera crescita psico­logica se non partendo proprio da quei modelli, che sono le sue radici; una loro svalutazione, anche indiretta, equivale a una svalutazione del bambino stesso e di alcune importanti immagini che ha di sé, quindi a una loro rimozione o a una identificazione con una autoimmagine depressiva.
Il compito in cui aiutarlo è invece un percorso di valutazione e di rivalutazione, di trasfor­mazione dei suoi vissuti e delle sue esperienze passate e di armonizzazione con le esperienze successive, perché una personalità equilibrata è il risultato di una sufficiente integrazione di tutte le sue componenti, nessuna esclusa, intorno a un centro unificatore.

Per riuscire in questo non facile impegno, la coppia che desidera adottare, dovrebbe riuscire a confrontarsi onestamente con il suo “lutto”, se non ha potuto avere figli biologici, e quindi rielaborare la sua subpersonalità genitoriale. Se la impossibilità a procreare non è stata trasformata, il genitore adottivo può agire inconsciamente “come se” il figlio fosse senza passato; inoltre può inconsciamente aspettarsi dal figlio adottivo una conferma di avere delle capacità, e interagire solo con la subpersonalità del bambino che desidera una nuova vita ed è orientata verso il futuro, in tal modo rinforzando la sua situazione di scissione fra passato e presente, mentre “solo permettendo ai vari frammenti di personalità del bambino di esprimersi per poterli osservare in un contesto familiare stabile e vivo, senza che questi si confondano, o un aspetto della personalità prevalga sugli altri, si può intraprendere quel cammino cen­trale in una adozione, che conduce alla coesione della personalità del minore che ha sofferto” (Minori Giustizia, 2000, pag. 65).
Quando la coppia adottiva riesce a mettersi in questa ottica, solo allora può mostrare sincero interesse per il passato del figlio e per i suoi ricordi, aiutandolo e sollecitandolo a parlarne, senza paura di perderlo; e può valorizzare sempre il suo paese di origine anche quando il bambino è venuto in Italia così piccolo da non ricordarsi niente: fra le nostre subpersonalità, come ho già ricordato, c’è anche quella razziale.
I nuovi genitori non dovrebbero porsi come sostituti di relazioni affettive, ma come facilitatori di un processo dove vecchie e nuove esperienze vengono condivise e rielaborate insieme, verso una sintesi: “Nel momento della comunicazione e trasmissione a lui delle sue origini, i genitori adottivi gli permetteranno di vedersi nella continuità ed unità della propria esperienza, a prezzo della consapevolezza del dolore della frattura, che saranno pronti a contenere, operando la necessaria protezione” (Minori Giustizia, 2000, pag. 51).

Ho un bel ricordo personale di una madre adottiva che con la figlia di 7-8 anni si era cimentata in cucina nel riprodurre alcuni piatti che la bambina ricordava di aver mangiato abitualmente nel suo paese, ma che non avrebbe saputo cucinare se non con l’aiuto della nuova madre, “sperimentando” insieme. Una piccola esperienza che comunica molto sul piano della condivisione e del rispetto per il passato della figlia. Anche tornare nel paese di provenienza del bambino, anche se non lo ricordava, si risolve sempre in una esperienza positiva, ed è a mio avviso imprescindibile: vivere questo viaggio con i suoi “nuovi” genitori, è anche un modo per fare insieme un viaggio nella storia personale del bambino, ed è una buona opportunità per costruire insieme un’altra storia, familiare questa, nella quale nessun frammento del passato è scisso.
L’ottica migliore per una famiglia che ha adottato un bambino straniero, è quella di diventare un laboratorio di sintesi culturale dove modelli diversi si integrano senza fratture: in questo laboratorio il bambino, di qualunque età, può trovare il vero punto di partenza per la sua crescita, che per lui non è il momento della nascita biologica, e neanche il momento in cui è stato accolto nella nuova realtà, ma piuttosto è il momento in cui tutte le sue esperienze sono accessibili e sufficientemente armonizzate intorno a ciò che lui sente come Io, la cui manifestazione soggettiva, ricordiamo, “è il senso insopprimibile di identità individuale che permane malgrado e attraverso tutte le vicende e gli sviluppi dall’infanzia alla vecchiaia” (R. Assagioli, in Comprendere la psicosintesi).
Da questo momento, e non prima, chi ha vissuto l’esperienza dell’adozione può iniziare un vero processo verso il suo Modello Ideale, e verso la piena realizzazione di sé.

 

BIBLIOGRAFIA

Assagioli R., Principi e metodi della Psicosintesi Terapeutica, Ed. Astrolabio, Roma 1973.
Cappellini P., in Minori Giustizia, Ed. Franco Angeli, Milano 1998.
Dell’Antonio A.M., Cambiare i genitori, Ed. Feltrinelli, Milano 1980.
Granieri A. e Sandrone P., in Minori Giustizia, Ed. Franco Angeli, Milano 2000.
Guidi D. e Cantù D., in Minori Giustizia, Ed. Franco Angeli, Milano 2000.
Serra P., in Minori Giustizia, Ed. Franco Angeli, Milano 1999.