Il rapporto psicoterapeutico: specificità e realtà del rapporto

Rivista di Psicosintesi Terapeutica – Anno IV, Numero 7, Marzo 2003

IL RAPPORTO PSICOTERAPEUTICO: SPECIFICITÀ E REALTÀ DEL RAPPORTO[1]

di Nives Favero

In this didactic writing, the author describes the psychosynthetic therapy from the point of view of different kinds of relations (transfert, specific relation, human relation, solution of relation), putting in evidence the central position of the specific relation and the psychotherapist’s guide function to this correspondent.

Il rapporto psicoterapeutico si stabilisce tra una persona che desidera curare un disagio di tipo psicologico e uno psicoterapeuta che ha le competenze e la disponibilità ad aiutarla nell’obiettivo di capire e superare gli ostacoli presenti nel suo percorso esistenziale.
Questo rapporto segue delle regole precise, formulate e accettate da ambo le parti in quello che è definito “contratto terapeutico”, che aiuta a dare maggior chiarezza, definizione, oggettività, a questa relazione che è in parte simile, ma anche molto diversa da tutte le altre della nostra vita.
La consapevolezza e l’accettazione delle condizioni specifiche di questo rapporto, la concretezza degli scopi che tramite questo vengono perseguiti e la necessità di costruire una collaborazione positiva e aderente alla realtà sono quindi i requisiti necessari allo svolgersi del lavoro terapeutico e tuttavia, non solo questo rapporto non è l’unico proprio della relazione terapeutica, ma spesso può passare del tempo prima che nel paziente si realizzi il suo riconoscimento.
Nella psicoterapia infatti si manifesta (talvolta in modo imponente) il rapporto di transfert, quell’insieme di vissuti che il bambino ha sperimentato con i genitori, che il paziente proietta sul terapeuta e che deve essere analizzato e dissolto, affinché il paziente possa avere una relazione aderente alla realtà sia con il terapeuta che con le altre figure importanti della sua vita.
È con il ridursi del transfert che il rapporto terapeutico specifico si struttu­ra in modo sempre migliore: il paziente ha maggior fiducia nel terapeuta, gli riconosce la funzione di guida, ne accoglie l’aiuto e, grazie a questa collaborazione, diventa gradualmente più capace di prendersi cura di sé, più attento e motivato alla propria crescita.
Raggiunto questo livello Assagioli inserisce un nuovo tipo di rapporto, quello umano. Si tratta di una modalità relazionale importante che permette al paziente di abbandonare le ultime idealizzazioni, di sentirsi più maturo, di instaurare un rapporto alla pari anche con la sua guida e prepararsi così all’ultima fase, quella della soluzione del rapporto.
Questo momento è molto delicato, perché con l’elaborazione della separazione dal terapeuta possono emergere altri lutti dell’esistenza, possono manifestarsi diverse resistenze ad accettare la perdita quale esperienza inevitabile della vita o ad assumere la piena responsabilità di sé, ed è necessaria da parte del terapeuta comprensione, gradualità e fermezza nel portare la relazione alla sua necessaria conclusione.
Questi diversi tipi di rapporto sono non solo importanti, ma proprio indispensabili affinché il lavoro terapeutico sia completo; pur tuttavia non sono sullo stesso piano, essendo il rapporto terapeutico specifico la struttura portante su cui si articolano tutti gli altri tipi.
In qualsiasi momento del percorso il terapeuta mira ad essere ancorato al suo ruolo di guida, alla sua subpersonalità terapeutica e da questa centralità egli osserva i diversi stimoli provenienti dalla relazione, decide ed articola le risposte utili al paziente.
Sia che il terapeuta stia vivendo una reazione controtransferale o che stia incoraggiando un rapporto alla pari, è al centro della sua funzione di guida che fa riferimento in modo che ogni comportamento venga “… utilizzato, diretto e regolato ai fini della cura e per il bene del paziente…”[2]
Da questo deriva che, mentre il paziente oscilla e procede nelle sue diverse identificazioni tra le varie modalità di rapporto, il terapeuta rimane il più fermamente possibile aderente al mandato della specificità della relazione che sta conducendo e da questa identità professionale e umana utilizza e modula i possibili interventi e gli altri tipi di rapporto.
Per vedere con più chiarezza la strutturazione di questo lavoro, può essere utile pensare allo specifico della subpersonalità terapeutica nell’arco di una psicoterapia suddivisa in tre fasi: l’inizio, il cuore, la fine.

 

L’INIZIO

Accettare una persona in psicoterapia è una decisione molto complessa, significa dare una disponibilità che dura nel tempo, quando ancora gran parte delle variabili in gioco (che determineranno l’utilità di questo lavoro) sono sconosciute.
I primi momenti dell’incontro con una persona che fa richiesta di aiuto, sono dedicati alla diagnosi; sappiamo che essa è un percorso che si completa nel tempo e, tuttavia, la decisione su quali indicazioni terapeutiche dare ad una persona deve essere presa piuttosto rapidamente. È quindi necessaria in questa fase una grande attenzione a tutte le possibili informazioni che la persona consciamente o inconsciamente ci fornisce.
Qualora si arrivi alla conclusione che l’indicazione utile sia la psicoterapia, il terapeuta si pone la domanda su quale possa essere l’approccio più utile e, se possibile (ossia se ha conoscenze in tal senso) quali possano eventualmente essere i colleghi più adatti a quel paziente.
Perché si pongano le basi di una buona relazione terapeutica sono utili non solo le competenze professionali, ma anche una affinità umana (età, sesso, esperienza, caratteristiche culturali, tipologia, etc.) e, non ultima, la disponibi­lità a seguire quella persona; intraprendere una nuova psicoterapia non signi­ fica avere un’ora di lavoro in più, ma avere una nuova persona a cui dare un aiuto che dovrà essere costante nel tempo.
Il terapeuta che si sente fare richiesta di psicoterapia deve pertanto fare non solo la valutazione del paziente ma anche la propria; è utile intraprendere una psicoterapia quando il terapeuta ha fiducia nelle sue competenze e nella sua disponibilità, nelle potenzialità del paziente, e sente quindi una ragionata speranza che questo lavoro possa essere opportuno.

 

IL CUORE

È la fase più ampia e impegnativa del percorso terapeutico: presenta la maggior concentrazione di comportamenti transferali, la nascita e il consolidamento della relazione terapeutica specifica, e, in seguito, i primi scambi di autentico rapporto alla pari.
La relazione transferale per il terapeuta è una miniera di informazioni che provengono in larga misura dall’inconscio del paziente, e che stimolano anche risposte controtransferali nell’inconscio del terapeuta, molto indicative ai fini di una comprensione profonda dei problemi di quella persona.
Compito del terapeuta è quello di vedere, ascoltare, essere consapevole di questi movimenti (che possono essere anche molto intensi, destabilizzanti, inquietanti), contenerli, capirli, e rispondere al paziente con i comportamenti che gli sono veramente di aiuto.
In alcune situazioni difficili mantenere questa funzione di guida può richiedere al terapeuta una capacità massima di ascolto, contenimento, disidentificazione dalle sue reazioni più immediate e identificazione cosciente nella sua subpersonalità terapeutica, ed è questa volontà di agire nel miglior modo, percepita dal paziente, che va a costituire un fondamento su cui si costruisce la fiducia e si sviluppa una alleanza cosciente e reale.
Il paziente che entra nella relazione terapeutica vera e propria, riconosce il terapeuta degno della sua fiducia e comincia ad utilizzare molto più proficuamente il lavoro terapeutico, anche grazie al fatto che l’analisi e il parziale scioglimento del transfert (e degli scopi che quei vissuti perseguivano) permettono una riformulazione degli scopi della propria esistenza – e quindi del lavoro terapeutico – molto più aderenti alla realtà che la persona vive.
In questa relazione è molto importante che il terapeuta distingua il compito peculiare di questa funzione “genitoriale”: essere – come dice Assagioli.– un “consigliere”, un “modello”, “un ponte fra l’ego del paziente e il suo Sé”, non significa “sostituirsi” alle capacità che il paziente ancora non ha ben maturato, ma piuttosto che il terapeuta, conoscendo meglio del paziente gli ostacoli alla crescita e la possibilità di superarli, può stimolarlo, sostenerlo, incoraggiarlo a scoprire i suoi obiettivi, a distinguere quelli veramente positivi per lui, a vedere gli ostacoli, a trovare il suo modo di superarli, a sentire la direzione della sua volontà.
Questo avviene nel pieno rispetto dell’individualità di quella persona.
Nel suo essere guida il terapeuta deve sapersi disidentificare dai suoi modelli e stili di crescita ed essere d’aiuto al paziente a sviluppare la consape­ volezza, ad acquisire metodi e tecniche utili a scoprire e a perseguire il modello ideale di sé che gli è proprio.
Questo non significa che il terapeuta debba astenersi rigidamente dall’esprimere indicazioni o consigli in diverse situazioni, ma che questi non devono essere espressi quando il problema tocchi questioni che riguardano profondamente la responsabilità dell’individuo sulla propria esistenza (un discorso più articolato va fatto nel caso di pazienti limitati nella loro capacità di auto­ responsabilità e con i minori).
Il terapeuta è consapevole dei suoi limiti e sa che di fronte a conflitti e decisioni importanti egli stesso non può sapere quale sia la decisione migliore per il suo paziente, e anche nel caso che immagini di saperlo, sa che il suo compito specifico è quello di trasmettere all’altro i metodi, gli stimoli per diventare più capace di riconoscere le proprie risposte ed avere la volontà di realizzarle nel presente e nel futuro.
Spesso è proprio in queste delicate situazioni, in cui il paziente preme per avere un genitore che gli dica “cosa deve fare” e il terapeuta invece lo sostiene e lo incoraggia per trovare le sue soluzioni, che si manifestano i primi momenti del rapporto umano alla pari. Il terapeuta nel condividere con il paziente l’inopportunità e l’impossibilità a “risolvere” il suo problema, gli dà certamente una frustrazione nei suoi bisogni di “accudimento”, ma lo aiuta concretamente a ridimensionare le idealizzazioni verso il “mondo dei grandi” e a sviluppare la sua capacità di essere adulto.
Una volta superati gli inevitabili scossoni che la nascita del rapporto alla pari comporta, la relazione terapeutica si colora di una maggiore intimità e umanità e tuttavia, anche in questo tipo di rapporto, il terapeuta mantiene la sua funzione di guida perché i momenti di condivisione alla pari, pur essendo autentici, devono sempre essere manifestati in base all’obiettivo dell’utilità che questi possono avere per la crescita del paziente (e non certo in base al desiderio di condivisione del terapeuta).
Quando il terapeuta decide di rendere più manifesta la sua umanità fatta anche di problemi, di limiti, di sofferenza, comunica la sua umiltà e anche la tenacia nel cercare il superamento dei suoi limiti, la accettazione e la fiducia nella vita e la volontà di impegnarsi per viverla dandole valore giorno per giorno.
È un passaggio molto importante che aiuta il paziente ad essere sempre più consapevole del fatto che il lavoro e l’impegno per migliorare la propria vita, è qualcosa che spetta solo a lui ed è un compito che dura per sempre.
La comprensione e l’accettazione di questa realtà introduce la soluzione del rapporto.

 

LA FINE

La fine del rapporto terapeutico talvolta avviene prima che gli obiettivi della terapia siano conseguiti, in tal caso si parla di interruzione del lavoro e, se ciò può avvenire a causa di grossi cambiamenti nella vita del paziente o del tera­peuta, molto più spesso i motivi dell’interruzione sono da ricercarsi in ostacoli manifestatisi nella terapia che, per motivi diversi, non sono stati risolvibili.
Anche nel caso di una interruzione repentina, è importante che il terapeuta proponga uno spazio per capire con il paziente i motivi per cui si è verificato questo strappo, cercare con onestà le difficoltà che da ambo le parti si sono presentate, in modo da restituire al paziente una visione realistica di ciò che è avvenuto, ed eventualmente valutare con lui possibilità alternative di cura.
È utile cioè per il paziente che la separazione avvenga nel modo più consapevole possibile, senza vincoli e con la speranza di altre possibilità d’intervento.
Lo stesso atteggiamento può valere nelle situazioni opposte, quelle delle terapie che non finiscono mai, dove si sono avuti miglioramenti ma da tempo la situazione è in stallo e, nonostante sia stata fatta una accurata analisi degli ostacoli presenti, non ci sono progressi; può quindi essere considerata la necessità di una conclusione, o anche una nuova forma di aiuto.
Quando invece le fasi finali del rapporto sono conclusive di un lavoro tera­peutico che ha raggiunto i suoi obiettivi, e si entra nel rapporto di soluzione, questo può essere, contrariamente alle aspettative, molto movimentato e problematico.
Il paziente di fronte alla prospettiva di essere da solo a prendersi cura di sé, può sentirsi veramente impaurito e comunicare questo con comportamenti transferali abbandonati da tempo, con la riproposta di vecchi sintomi o con la produzione di nuovi sintomi o con l’arrivo di problemi che si sente incapace di affrontare. Può succedere anche che il dispiacere autentico per la fine di questo rapporto riapra altri lutti della vita di quella persona, come pure che induca a riflessioni e interrogativi profondi sulla sofferenza, sul senso della vita e sulla morte. Può succedere che il paziente manifesti, con varie motivazioni, il desiderio di continuare il rapporto con il terapeuta oltre la fine della psicoterapia.
In tutti questi casi è veramente importante che la guida rimanga ancorata alla specificità e alla realtà del suo ruolo che è quello di essere “ponte tra la personalità del paziente e il suo Sé” e quindi di ritirarsi quando questo dialogo si è instaurato. Il terapeuta allora in questa fase finale condivide con il paziente la sua paura di crescere, il dispiacere per la separazione, i suoi interrogativi esistenziali, il suo desiderio di un rapporto nuovo con il terapeuta, ma rimane fermo nell’aiutare il paziente a riporre e sviluppare la sua fiducia in se stesso, nel suo Sé, e nel cercare amicizia, condivisione, intimità, nel mondo intorno a lui, nel suo presente e nel futuro.
La necessità di una autentica soluzione della relazione non preclude che il terapeuta rimanga disponibile se, come a volte accade, il paziente in seguito richiedesse un nuovo momento di aiuto, ed è la condizione che permette (nei casi di cui parla anche Assagioli), qualora nel tempo se ne presentino le condizioni, il realizzarsi di una relazione nuova, amichevole o di collaborazione.

[1] Questo scritto è un testo didattico per gli allievi SIPT.
[2] R. Assagioli. Jung e la Psicosintesi (II – La terapia), Corso di Lezioni, Istituto di Psicosintesi, Firenze 1966.