Immagini per un piano terapeutico in psicosintesi

Rivista di Psicosintesi Terapeutica – Anno XI, Numero speciale 21-22, Marzo-settembre 2010

IMMAGINI PER UN PIANO TERAPEUTICO IN PSICOSINTESI

di Gianni Y. Dattilo
Psicologo, psicoterapeuta e didatta SIPT, Presidente della Società Italiana di Psicosintesi Terapeutica. Socio dell’American Psychological Association, Roma. Indirizzo per la corrispondenza: daatyoav@infinito.it

 

The author introduces his study on treatment planning in psychosynthesis psychotherapy with some images by Magritte, in order to foster an artistic and intuitive attitude in psychotherapy practice along with the clinical and technical component. The so-called treatment plan is perceived and designed by the therapist as it unfolds in the therapeutic process and relationship. The plan is not only about techniques, but also tends to envision the inner blueprint of the client’s Self, often concealed in her/his pathology and distress. Psychosynthesis psychotherapy integrates psychodynamic, cognitive-behavioral, humanistic, existential, transpersonal approaches and utilizes an almost unlimited variety of techniques. The actual specificity of psychosynthesis psychotherapy lies in its complexity.
Key words: psychosynthesis, psychotherapy, specificity, complexity, treatment plan, therapeutic relationship, images, Magritte, intuition, artistic attitude, clinical approaches, Self blueprint, spiritual dimension.

L’autore introduce la riflessione sul piano terapeutico in psicosintesi partendo da alcune immagini di Magritte, al fine di evocare una componente artistica e intuitiva nella pratica psicoterapica che va insieme a quella clinica e tecnica. Il piano intuito e formulato dal terapeuta si svela nel processo e nella relazione terapeutica. Non si tratta soltanto di mettere insieme delle tecniche, ma di riconoscere e accogliere la progettualità del Sé del paziente, spesso nascosta nella sofferenza e patologia. La complessità della psicosintesi terapeutica integra gli approcci psicodinamici, cognitivo-comportamentali, umanistici, transpersonali e si serve di una molteplicità pressoché illimitata di tecniche. La specificità della psicosintesi terapeutica è nella sua complessità.
Parole chiave: psicosintesi, psicoterapia, specificità, complessità, piano terapeutico, relazione terapeutica, immagini, Magritte, intuizione, componente artistica, clinica, approcci psicoterapeutici, tecniche, progettualità del Sé, dimensione spirituale.

 

Il piano terapeutico è, a mio avviso, un nucleo progettuale intuito e formulato dal terapeuta che si svela e si attua nel processo terapeutico e nella relazione.
Da qualche anno do inizio al mio seminario sul tema con un’immagine, un quadro di Magritte dal titolo L’autoritratto, in cui l’artista osserva un uovo e dipinge un volatile.

Il pittore intuisce “surrealisticamente” le potenzialità racchiuse nell’uovo e dà loro forma in un dipinto. Lo psicoterapeuta dovrebbe essere anche un po’ artista e intuire le potenzialità più autentiche del paziente e “dipingere” con lui un “piano” che lo aiuti a ritrovare ciò che essenzialmente è e può divenire.
È sempre interessante ascoltare le intuizioni e le riflessioni degli allievi stimolate dal libero lavoro immaginativo sul quadro. Un’altra immagine che mi soccorre in aiuto è una partitura musicale, unica, individuale, che viene, per così dire, trascritta dal terapeuta insieme al paziente nell’ascolto del mistero dell’incontro che, attraverso il colloquio, dà modo alla persona di scoprire un suo canto interno sconosciuto, una musica segreta che non aveva mai fino allora osato neppure immaginare.

Per piano terapeutico, quindi, non intendo il semplice mettere insieme delle tecniche che sulla base della diagnosi appaiano adeguate alla cura psicologica di quella determinata persona, ma anche e soprattutto lo svelamento intuitivo e immaginativo delle potenzialità del paziente, il percepire empaticamente la progettualità del Sé che prende forma nel percorso “terapeutico”.
Per quanto attiene ai contenuti specifici del piano terapeutico, al c.d. “treatment planning”, con riferimento alla diagnosi, all’individuazione dei problemi, alla formulazione degli obiettivi e alle strategie terapeutiche, troviamo nel mondo anglosassone e soprattutto, ma non solo, tra gli autori a orientamento cognitivo-comportamentale, una vasta e accurata bibliografia d’indubbio interesse anche per la terapia psicosintetica.
Le tecniche però sono soltanto un mezzo e non un fine, sono strumentali rispetto al piano, come gli strumenti e la voce nell’esecuzione musicale rispetto alla partitura.
Il Sé è essenzialmente progettuale, ma talvolta il progetto è inconscio e imprigionato in modalità regressive e sintomatiche.
Assagioli è stato tra i primi a studiare i rapporti tra realizzazione di sé e disturbi psichici, indicandone alcuni stadi, come le crisi che precedono il risveglio spirituale, e quelle che ne sono in qualche modo l’effetto, le reazioni al risveglio spirituale e le fasi del processo di trasmutazione.
La distinzione tra disturbi psichici regressivi e disturbi psichici progressivi, fondata sulle osservazioni di Jung sulla “normalità”, in alcuni casi costrittiva e patogena, amplia definitivamente gli orizzonti della psicoterapia. La c.d. normalità che soffoca lo sviluppo peculiare della persona, la “chiamata” creativa del Sé, imponendo un’omogeneità collettiva, fonte di sofferenza, la “dittatura del sì” di cui parla Heidegger, che necessariamente conduce ad un’esistenza inautentica. Afferma Jung che la nevrosi è talvolta “l’ira di Dio” per una vocazione tradita.
In realtà non sempre è facile distinguere tra forme sintomatiche fenomenologicamente identiche, se non si guarda al contesto specifico di quella determinata persona. Ogni disagio psichico ha una sua ipotesi psicodinamica, una sua storia, ma anche spesso un suo “telos”, una sua finalità inconscia che vuole condurre la persona da qualche altra parte, verso nuovi equilibri. L’inconscio non è più soltanto la sede del “rimosso”, di ciò che non è accettabile alla coscienza, ma ha in sé anche una sua teleologia evolutiva (Jung), che in psicosintesi si colloca spazialmente nell’inconscio superiore, dove vivono latenti le nostre più alte potenzialità. In realtà gli stessi sintomi “regressivi” sono spesso manifestazioni regressive di movimenti psicoenergetici che poi si rivelano “progressivi”. Il Sé contiene in nuce il nucleo progettuale unico della persona. L’immagine del seme contiene in sé l’albero così come può diventare. James Hillman ha parlato della “teoria della ghianda” nel suo libro Codice dell’Anima.
Quindi la distinzione di cui stiamo parlando non deve essere intesa in maniera drastica e dicotomica. Il Sé si cela spesso nell’ombra, nelle immagini “della selva oscura” del deserto, della “notte oscura dell’anima” e nella sofferenza psichica, al di là di facili idealizzazioni ottimistiche e del pensiero positivo. La sofferenza va accolta ed ascoltata, mai negata perché appunto dolorosa e “scomoda”.
D’altra parte l’ombra non va neppure idealizzata, in senso pseudo-poetico-romantico, evitando di sentire empaticamente il dolore vero dell’altro, che spesso vuole innanzitutto ascolto e comprensione e non interpretazioni e spiegazioni psico-spirituali.
Il piano terapeutico deve essere realistico e tenere conto dei bisogni più basilari della persona, della potenza delle pulsioni e delle passioni, ma nello stesso tempo “vedere” oltre.
Ogni psicoterapia è “un vestito su misura”, non esiste un piano precostituito “oggettivo”, è il Sé per quanto “sommerso” negli abissi della personalità, spesso negato e tradito, che attraverso i sintomi e la sofferenza ci porta ad intravedere nuove prospettive e possibilità di una vita più sana ed autentica, ad intuire l’unicità di un destino esistenziale differente rispetto all’ambiente familiare, sociale, collettivo.
È importante che il terapeuta abbia attraversato a sua volta un suo processo di autorealizzazione, d’individuazione, che abbia attuato, anche se mai definitivamente, una propria psicosintesi personale.
Il terapeuta per primo deve scoprire in se stesso il suo progetto realizzativo individuale, la sua vocazione più profonda, restaurare, se è il caso, la sua connessione frantumata con il Sé.
Se ciò non accade, la psicoterapia può essere ridotta ad un adattamento passivo e rassegnato, alla “dittatura del sì”, al “si pensa”, “si dice”, “si fa”, al trionfo dell’impersonalità, al tradimento della propria peculiarità, in cambio dell’apparente quieto vivere di una pseudo normalità collettiva, essa stessa fonte di patologia.
La psicosintesi terapeutica offre un ampio spettro di tecniche, esercizi, metodi e il piano terapeutico è sotto questo profilo elastico ed illimitatamente inclusivo, ma non può a mio avviso essere ridotto a un agglomerato di tecniche, esercizi e metodi, se non nella visione prospettica di quel particolare nucleo progettuale a cui il paziente più o meno inconsciamente tende. Di nuovo, il quadro di Magritte ci insegna a vedere oltre la letteralità dell’apparire.
La psicosintesi è una complessa psicologia del profondo e “delle altezze”, proprio perché include la dimensione spirituale. L’essere umano, nella rappresentazione dell’ovoide assagioliano, è radicato in basso (inconscio inferiore), ma anche in alto (inconscio superiore e Sé transpersonale), proprio come in alcune immagini cabalistiche, in cui l’uomo è rappresentato come un albero rovesciato, con le radici in cielo.
Intuire un piano terapeutico, vuol dire cominciare a percepire un “modello ideale” individuale, ancora inconscio, ma sempre realistico e concreto. Le tecniche, gli esercizi, i metodi, sono in funzione del piano e della unicità della persona, e mai nel senso di cercare di adattare, interpretare, coartare, ridurre la persona ad un modello astratto teorico, non vissuto.
Nella prospettiva junghiana, ripeteva spesso il prof. Gianfranco Tedeschi, citando un noto detto taoista, “non si possono allungare le zampe alle anitre né accorciarle alle gru”, questa è una delle regole fondamentali della psicoterapia, il rispetto della “natura” del paziente, qualunque approccio si voglia seguire.
La psicoterapia talvolta ha degli obiettivi apparentemente limitati, in cui si raggiunge una psicosintesi parziale, ma ciò ha comunque un grande valore, nel rispetto dei tempi e dei modi della persona.
Un rischio nelle terapie umanistiche e transpersonali può consistere nel coltivare e proporre una visione idealizzata dell’essere umano, unita ad una tendenza devozionale al proselitismo spirituale, quindi ad eccessi psicopedagogici e didascalici, che spesso si manifestano in quei sermoni psicologici fatti dai terapeuti, che io chiamo “psico-prediche”. Tali interventi sono il più delle volte inutili e inefficaci, ma talvolta addirittura dannosi e frustranti per entrambi i soggetti della relazione terapeutica. Il paziente si sente colpevolizzato e spesso accumula rabbia inconscia verso il terapeuta che, con le migliori intenzioni, gli propone modelli per lui troppo alti, irrealizzabili, ma soprattutto non si sente “visto” e compreso, si tratta di veri e propri “fallimenti empatici” (“empathic failures”) nel senso di Kohut.
La psicosintesi terapeutica tiene conto della totalità dell’essere umano e pur includendo la dimensione spirituale, non può certo essere ridotta a una terapia volontaristica, esortativa e predicatoria. Il vero influsso personale del terapeuta consiste, parafrasando Assagioli, nella spontanea irradiazione di ciò che egli veramente è, e non tanto in ciò che dice di essere.
Consiglio in genere agli allievi di evitare il più possibile il verbo “dovere” con i pazienti nel colloquio, e se mai sostituirlo con un “potresti”, un “è possibile”, tanto più che alcune frasi logore come “lei si deve volere più bene” e simili, fanno ormai parte di una sorta di stupidario psicologico e raramente funzionano. Ma neppure qui si possono stabilire delle regole assolute e se la relazione è buona, tutto può funzionare.
Il piano terapeutico necessita di una componente intuitiva, artistica, ispirativa e non soltanto tecnica. Il terapeuta con la sua presenza offre alla persona la possibilità di un ascolto più profondo di se stesso, delle voci soffocate dentro, la visione di nuovi sviluppi inattesi, talvolta insperati.
Le tecniche hanno certo una loro importanza, ma vanno relativizzate nella realtà dell’incontro umano, nella relazione si svela il piano e il terapeuta funge da “catalizzatore”, attivando processi trasformativi che accadono quasi “naturalmente” nell’altro. L’esito di qualunque intervento, tecnica, esercizio, metodo dipende dal “clima psichico” della relazione, anche le interpretazioni analitiche hanno il loro giusto tempo, ma agiscono in senso trasformativo secondo la dinamica relazionale.
Per Jung la tecnica più importante della psicoterapia è la personalità stessa del terapeuta con tutte le sue luci e ombre, la sua umanità e le sue ferite. Ernst Bernhard, il medico che ha per così dire portato la psicologia analitica junghiana in Italia, sosteneva che l’analista dovrebbe “contagiare” il paziente con la propria salute. In genere si parla di “guaritore ferito” e si pone in luce la sofferenza dell’analista e la sua capacità empatica ad essa collegata. Si auspica anche che il terapeuta sia un “guaritore guarito”, ma in realtà il terapeuta dovrebbe sempre sentirsi chiamato ad un continuo processo di guarigione, sentirsi un “guaritore guarente”, che cura se stesso insieme ad ogni paziente, capace di creare un “campo di guarigione” che coinvolge entrambi i soggetti del rapporto.
“L’uomo che soffre e l’uomo che cura”, per citare il titolo del libro di Alberto Alberti, insieme formano un campo energetico interattivo, in cui entrano in gioco oltre alla sofferenza del paziente anche quella del terapeuta e sono indubbie le potenzialità terapeutiche suscitate dall’incontro umano. La pratica della psicoterapia offre spunti continui per lavorare su di sé attraverso le risonanze, le dinamiche transferali e controtransferali, l’ampia prospettiva sul mondo e sull’uomo che le più variegate situazioni della vita fanno entrare nei nostri studi.
Il rischio è l’identificazione con il ruolo per cui il terapeuta diviene prigioniero di se stesso e non può stabilire una relazione umana autentica con il paziente, ma difensivamente si nasconde dietro interpretazioni, diagnosi, professionalità.

 

In proposito ancora due immagini di Magritte dal titolo Il terapeuta. Nel primo quadro il terapeuta porta dentro di sé una gabbia aperta, un progetto di liberazione e quindi può farlo risuonare nel paziente e catalizzare in lui un anelito di libertà. Nel secondo quadro dentro il terapeuta vediamo il cielo, le nuvole, il giorno, mentre di fuori è notte con le stelle e la luna.
Talvolta nella stanza della terapia scende la notte, che pure ha il suo fascino e la sua bellezza, ma è importante mantenere la luce dentro di noi, non farci inghiottire nel buio e nello stesso tempo non negare le tenebre, non fuggire dall’oscurità che il paziente drammaticamente ci porta.
Lasciamo che i quadri di Magritte agiscano dentro di noi con la loro potenza evocatrice, senza dilungarci in troppe spiegazioni e interpretazioni. Assagioli amava dire che un’immagine vale più di mille parole.
Coltivare in noi la sensibilità per l’arte sicuramente migliorerà la nostra capacità intuitiva e ci renderà migliori come persone e come terapeuti. Sul potere dell’arte e del bello in generale consiglio vivamente la lettura del libro di Piero Ferrucci La bellezza e l’anima.
Il piano terapeutico in psicosintesi si può intendere come l’integrazione dinamica tra la componente clinica, diretta a individuare la terapia più adeguata dal punto di vista delle tecniche, degli esercizi e dei metodi, e l’elemento intuitivo, teleologico, artistico che dà forma e concretezza al “modello ideale” che la persona porta inconsciamente dentro di sé come mera potenzialità.

L’atteggiamento clinico in psicosintesi si muove almeno su tre piani distinti e coniuga modalità e tecniche molto differenti tra loro, anzi provenienti da ambiti culturali opposti.
In primo luogo, dopo aver esplorato la personalità cosciente, valutiamo il piano psicodinamico e psicoanalitico che in psicosintesi assume una propria fisionomia specifica. Tale punto meriterebbe uno studio approfondito, proprio perché non si tratta di una semplice importazione o passiva ricezione di teorie e tecniche psicodinamiche formulate altrove, ma di un rinnovato approccio unico per ogni paziente.
In secondo luogo, consideriamo il piano che potremmo chiamare cognitivo-comportamentale, con riferimento all’inconscio “plastico” quindi, nella terminologia assagioliana, a quell’area dell’inconscio suscettibile di essere “plasmata” attivamente con tecniche ed esercizi, che si distingue dall’inconscio c.d. “strutturato” che si può esplorare ed affrontare soltanto con l’analisi. Sotto questo profilo le varie tecniche cognitivo-comportamentali, gestaltiche, le terapie corporee, artistiche e creative, sono a disposizione del terapeuta per essere integrate nel piano generale della cura. Assagioli utilizzava alcune tecniche ed esercizi comportamentali di fronte a specifiche situazioni cliniche, come ad esempio la fobia per gli esami, alcune forme di fobia sociale, attacchi di panico ecc., integrandoli con il lavoro psicodinamico del profondo.
In terzo luogo nella visione psicosintetica assumono estrema rilevanza l’approccio umanistico-esistenziale e la dimensione spirituale o transpersonale. Soprattutto per quanto riguarda la psicosintesi spirituale, è necessaria l’esplorazione dell’inconscio superiore, l’analisi delle specifiche difese e resistenze, l’uso di tecniche meditative originali della psicosintesi, ma che possono anche trarre spunto dalle tradizioni spirituali che spesso costituiscono delle vere e proprie antiche fonti di guarigione.
Lo psicoterapeuta in psicosintesi si confronta quotidianamente con la pluralità degli approcci psicodinamici, cognitivo-comportamentali, umanistici, esistenziali, transpersonali ecc. e la molteplicità delle tecniche a disposizione, di fronte ad ogni paziente e la specificità viene plasmata in una nuova sintesi volta per volta.
In una nota intervista di Sam Kean, su “Psychology Today”, Assagioli ha sostenuto che il limite della psicosintesi è forse quello di non avere limiti, il che ben ci fa comprendere la sua complessità e difficoltà applicativa e teorica soprattutto in ambito psicoterapico. La specificità della psicosintesi terapeutica è nella sua complessità.

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