La fotografia come tecnica arteterapeutica in psicosintesi

Rivista di Psicosintesi Terapeutica – Anno XIV Numero 27, Marzo 2013

La fotografia come tecnica arteterapeutica in psicosintesi

di Lapo Felicioni
Psicologo, Psicoterapeuta S.I.P.T., Arteterapeuta C.R.E.T.E., formazione fotografica attraverso assistentato e pratica come fotografo professionista, Firenze.
Indirizzo per la corrispondenza: lapofeli@gmail.com

Presented is a brief summary of the final works from the SIPT course, which has been marked by creative integrity and art therapy paying special attention to the technique of photography. Research through first hand experience of using photography in a therapeutic sense with diverse application possibilities has rendered this theory an integrated model of Psychosynthesis.
The photography is represented as a “working with images” the inner and outer presence moment(s). Thus reflects the therapeutic makings; the playful, transformative potential inserted in the work that provides planning and placement/restructuring of the past to a greater presence in the present moment.
It is characterized by the creative aspect and expresses the versatility to create, to transform, to invent, to look at images. In which the intrinsic characteristic that is tied to the exploration of space, time and relationships, putting itself in relation is also through its movement, the participation of the body and its dexterity.
Toying with photographic, psychological and Psychosynthetic terms, offers a synopsis of conceptual similarities. These touch on the relationship between these, such as set and setting, light and shadow the body and the camera body, the “photographic look” and “therapeutic look”.
Key words: photography, Psychosynthesis, creativity, transformation, art therapy, images, moving in space, tell, retell, awareness, photographic look, therapeutic look, growth.

Il presente articolo muove in parte dalla sintesi dei lavori finali presentati negli anni di corso della SIPT, improntati alla creatività e all’arteterapia con un’attenzione alla tecnica della fotografia, in un’ottica di integrazione col modello della Psicosintesi; in parte dalla ricerca attraverso l’esperienza diretta dell’utilizzo fotografico in senso terapeutico con le sue diverse possibilità di applicazione.
La fotografia viene presentata come un “lavoro con le immagini” interne e esterne, con le sue potenzialità terapeutiche, ludiche, trasformative, e ben inseribili in un lavoro che preveda una progettualità e una collocazione/ristrutturazione del passato per una maggiore presenza al momento presente.
Si caratterizza per l’aspetto creativo, e per la versatilità espressa dal poter creare, trasformare, inventare, guardare immagini, e per la intrinseca caratteristica che la lega all’esplorazione dello spazio, del tempo e delle relazioni, mettendo a sua volta ”in relazione”, anche attraverso il movimento, la partecipazione del corpo, la manualità.
Giocando sui termini fotografici, psicologici e psicosintetici, viene proposta una piccola rassegna di analogie anche concettuali, fra i tre ambiti, come set e setting, luce e ombra, corpo e corpo macchina, ecc. per una possibile relazione fra “sguardo fotografico” e “sguardo terapeutico”.
Parole chiave: fotografia, Psicosintesi, creatività, trasformazione, arteterapia, immagini, muoversi nello spazio, narrare, rinarrare, consapevolezza, sguardo fotografico, sguardo terapeutico, crescita.

INTRODUZIONE

Fotografia: “scrivere con la luce”.
Psicosintesi: un modello psicoterapeutico, ma anche un processo esperienziale e di crescita, che lascia molto spazio all’importanza della creatività.
Sintesi, dal greco, significa “composizione” e Assagioli ritiene la sintesi un modo di operare del principio unificatore che chiama vita, espressione della lotta fra molteplicità e unità dell’individuo, dell’universo, della natura.
La sintesi è un risultato di parti che diventano un’unità nuova e diversa dalle precedenti, fa parte del processo della creatività, termine che affonda le sue radici in “fare”, ma anche “crescere”, e che si collega a Cerere, dea delle messi del grano e della fertilità portatrice del principio della nascita e della crescita, quindi della trasformazione.
Cosa c’entra a questo punto la fotografia?
Diciamo subito che intendo la fotografia come uno dei possibili strumenti compresi nella categoria più ampia e inclusiva dell’Arteterapia, e che quest’ultima si basa appunto sui principi della creatività, e dell’arte, e sul presupposto che esprimersi creando un oggetto, possa avere funzioni terapeutiche.
L’opera prodotta può essere considerata come una sintesi, costituita da materiali diversi, idee, intenzioni, significati, emozioni, ecc., che si reintegrano in un oggetto, terzo rispetto al paziente e al terapeuta.
L’opera è anche un’immagine, ed è a sua volta un prodotto dell’immaginazione e dell’immaginario; contiene in sé la trasformazione e può produrre trasformazione, nello stesso artista, e movimenti nello spettatore, grazie all’effetto dell’emozione estetica.
Riguardo alla fotografia, il fatto di scattare, elaborare, stampare o comunque “maneggiare” fotografie, è letteralmente lavorare con le immagini.
Proprio all’importanza delle immagini Assagioli fa riferimento quando parla delle leggi della volontà: le immagini tendono a produrre atti, principio che può essere utilizzato nella tecnica del modello ideale incanalando l’energia dell’elemento motore nel processo creativo e trasformativo.
In un piano terapeutico è possibile fare questo con tecniche diverse, dal colloquio, alla scrittura, alle tecniche immaginative, e alle varie possibilità dell’Arteterapia, fotografia compresa, e intesa come immagine da osservare, leggere, esplorare, o come strumento per ottenere immagini.
Nel primo caso le foto si guardano, si maneggiano, si ascoltano, suggeriscono, invitano a risonanze empatiche, studiate oggi anche fisiologicamente secondo le teorie dei neuroni specchio, che coinvolgono lo spettatore anima e corpo, attraverso l’esperienza delle emozioni.
Nel secondo caso si scattano. Il corpo è allora chiamato in causa anche per una partecipazione fisica al processo: maneggiare l’attrezzatura, muoversi nello spazio, coordinare visione e movimenti per lo scatto. Questo comporta l’uso di uno strumento che possa permetterne l’esecuzione e qui l’aspetto “tecnico” può essere importante o di scarso rilievo, secondo i casi.
Vediamo in generale come fotografia, parola e scrittura possano essere particolarmente integrabili nel lavoro terapeutico, anche per la narrazione, per la costruzione di significati e di senso, e per l’indagine psicologica.
Narrare è ri-costruire, ma anche ri-costruirsi, e rientra nel meccanismo del conosci – possiedi – trasforma.

RIFLESSIONI INTORNO ALLA FOTOGRAFIA

Si dice che la fotografia riproduca il reale, ma è anche vero che ogni occhio vede secondo la persona che guarda, con le sfumature individuali della sensopercezione o delle diverse eventuali patologie (fisiche, psichiche, neurologiche), ma anche in relazione a intenzione, motivazione, emozione, umore.
Inoltre una fotografia è sempre una estrapolazione di un particolare dal generale, senza odori, rumori, percezione diretta dell’ambiente.
La “scrittura con la luce” appare quindi comunque una “riscrittura” a prescindere dalle intenzioni più documentative e neutrali.
L’utilizzo che se ne fa sfuma in diverse connotazioni: giornalistiche, politiche, pubblicitarie, artistiche, o perfino quelle di lontano sapore lombrosiano.
D’altro canto troviamo la fotografia di viaggio, scientifica, di espressione, o legata all’estetica, al piacere ludico, ecc.
Ammesso che l’immagine di per sé rappresenti solo ciò che vi si trova raffigurato, l’intenzione d’uso o la sola contemplazione sono comunque traduzioni e quindi interpretazioni.
L’intento comunicativo che in genere caratterizza sia il documentare che la realizzazione di opere creative, espressive, artistiche, esprime un messaggio, un significato, dando all’immagine una caratteristica di linguaggio.
L’immagine racconta: luoghi, situazioni, persone, mostra oltre lo spazio e il tempo. La fotografia si presta quindi per rinarrare la propria storia e arrivare a una consapevolezza di ciò che siamo oggi, in modo simile alla scrittura dell’autobiografia, ma anche permette di pensare e realizzare immagini più o meno simboliche di ciò che vogliamo e possiamo diventare, ad esempio, in un lavoro secondo la tecnica del modello ideale.
Scattare nuove fotografie può contribuire quindi al percorso di crescita e rappresentare un confronto e un dialogo con le immagini interiori che vogliamo realizzare, e con quelle esterne che vogliamo costruire o catturare, che ci rapiscono attraverso il rettangolo del mirino e l’angolo di campo dell’obbiettivo, che seppure immobili si muovono perché la luce che cambia “le sposta”, che ci sorprendono o ci deludono perché la foto non è mai, e solo, esattamente ciò che abbiamo visto, ma lo rappresenta. A volte lo stravolge, lo esalta o addirittura lo nega. In questo l’avvento del digitale aiuta, facilita la possibilità di costruzione di una nuova realtà o di “falsificazione” della stessa.
La macchina fotografica può essere un modo alternativo e costruttivo per guardare il mondo, o al contrario strumento che ci distacca da esso, dissociando le emozioni dagli accadimenti perfino uccidendo il mondo (in inglese scattare è “shoot” come sparare).
La sparizione del negativo ha contribuito probabilmente a questo fenomeno: si possono fare infiniti scatti con facilità, mentre con l’analogico per consumare una delle 36 pose ne doveva valere la pena. Inoltre rivedere subito il risultato toglie spazio a quella fase di “magica attesa” che era in fondo anche educativa, e lascia spazio alla compulsività e perfino, forse, a un rischio di scollamento.
In generale sembra che la fotografia debba sempre più comprovare, dimostrare, nel vuoto dato dall’assenza dell’esistere pienamente nel momento in cui si scatta. Come se il supporto cartaceo o digitale potesse dare un senso di eterno, di “certificazione del fatto accaduto” visibile a tutti, del momento su di esso rappresentato: la tematica dell’esistere nell’essere visti come riparazione alla ferita narcisistica è talvolta estremizzata.
Questo è forse un problema intrinseco della fotografia, e l’inflazione delle immagini toglie spazio alle loro funzioni o ne esaspera solo alcune impoverendone le caratteristiche: da un mondo delle immagini al mondo “dell’immagine”.
Non è l’anima che registra l’accaduto attraverso i sensi, ma l’apparecchio che riprende e restituisce immediatamente i pixel che sostituiscono la concretezza dei momenti. Forse avevano ragione quei popoli che pensavano che la macchina fotografica potesse rubare l’anima: estendiamo allora questo pensiero non solo per chi sta davanti all’obbiettivo, ma anche dietro.
Se invece aggiungiamo al fotografare la consapevolezza del fatto che stiamo fotografando siamo in relazione come soggetti agenti con il soggetto fotografato e con il contesto in cui ci troviamo.
Siamo in contatto con noi stessi, col corpo, e forse con la nostra anima che ci spinge a cercare o creare un’immagine che può essere anche astratta, uscendo eventualmente dal problema della rappresentazione realistica del reale. Non più la fotografia di quel momento, ma il momento di quella fotografia.
Quindi nell’osservare, scattare, o rielaborare una fotografia ci possono essere aspetti creativi (e ludici) utilizzabili terapeuticamente.
Costruire un set e realizzare la scena da riprendere significa cercare oggetti, affrontare problemi vari, usare le luci, e ragionare su quello che stiamo facendo e intendiamo fare, e che “è possibile fare” alimentando così la motivazione a cercare vie per realizzare quella particolare foto.
Se per fare questo in uno studio professionale occorrono strumenti e capacità, si possono ottenere risultati anche con persone che non hanno specifiche competenze, o con problematiche diverse.
Possiamo anche prendere la macchina fotografica e uscire a catturare immagini, poi magari continuare col pc e esplorare le possibilità della fotocomposizione.
Oppure integrare il lavoro sul passato e sul bisogno presente con vecchie foto e nuovi scatti, per un processo che permetta di fare il punto, arrivare a una sintesi, e nutrire la motivazione per sostenere la volontà verso nuove scelte e nuove vie.
Scattare una foto è già una metafora di questo, il mirino comporta già la scelta dell’inquadratura e quindi una rinuncia con una focalizzazione su ciò che interessa.
Questo può avvenire anche con una macchina automatica e senza competenze, ma spesso manca l’attenzione, lo vediamo nelle teste tagliate, nei piedi mancanti negli orizzonti storti, ecc. senza andare a scomodare intenzioni inconsce di “tagliare fuori” soggetti o parti di soggetto.
Il richiamo su concentrazione e attenzione è un aspetto semplice ma terapeutico inerente al vedere rispetto al guardare: qualcuno ha detto che “il fotografo vede quello che altri guardano”.
Ad esempio per la fotografia in bianco e nero, lo scatto deve essere pensato in b/n, la situazione va tradotta al momento dello scatto con la consapevolezza della camera oscura, con un occhio che vede i colori ma pensa anche in b/n. La trasformazione è già in atto prima dello sviluppo e della stampa.
Anche la fotografia di eventi necessita di una immaginazione che permetta di legare cause a probabili effetti: prepararsi ad una foto di qualcosa che sta per accadere, è spesso importante, nel caso in cui si tratti di attimi particolari. Nello sport, in teatro, nelle cerimonie, nel fotogiornalismo o nelle foto di strada si può presumere che potrà esserci un qualche avvenimento in base al contesto: immaginarlo anche in modo non troppo certo permette di essere attenti, presenti al momento e di non perdere lo scatto eventuale, “quello” scatto, quasi come una particella di ordine dal caos, che riesce, pur essendo un particolare, a esprimere un significato anche generale.
Nel lavoro terapeutico in esterno la persona ha la possibilità di essere in relazione contemporaneamente con se stessa e col fatto che sta facendo una foto in quel dato luogo e contesto, e con l’ambiente circostante, dove ci sono magari altre persone e stanno accadendo cose.
Intanto si appropria del mondo intorno con una componente di controllo, data dalla sensazione di essere dietro l’obbiettivo.
Ho sperimentato positivamente questi aspetti terapeutici con giovani psicotici e con adolescenti.
Un cenno anche alla possibile e interessante tendenza opposta, cioè lo scatto “a caso” senza guardare cosa si fotografa, o comunque con uno scarso e intenzionale controllo delle variabili, oppure con obbiettivi particolarmente deformanti.
Appaiono sul mercato macchine fotografiche, in risposta al mondo digitale e alla fotografia patinata che rendono le immagini “non perfette”, curiose, o “psichedeliche” con un sapore un po’ anni ’70.
L’aspetto ludico e di sorpresa nella rivelazione dell’immagine che in questo caso non è troppo pensata né preparata, è di per sé un’altra possibilità di essere nel momento presente con la fotografia ma senza l’impegno dell’attenzione al risultato: è il momento del gioco e della sorpresa, del lasciarsi un po’ andare al caso.
Insomma la fotografia porta con sé molte possibilità, come accennato anche quella di costruire storie, ed è perciò probabilmente che si lega bene con la scrittura.
Fotografia e parola raccontano separatamente ma anche integrandosi a vicenda, può prevalere l’una o l’altra secondo i casi, in modo più discorsivo o descrittivo a favore della scrittura, o didascalico a favore della foto.
Anche poesia e fotografia si possono abbinare, in un gioco di osservazione e ricerca delle metafore e delle sensazioni suscitate e vissute, che possono integrarsi in nuove immagini interiori.

“SGUARDO FOTOGRAFICO” E “SGUARDO TERAPEUTICO”

Vorrei giocare un po’, a questo punto, con alcune analogie che trovo curiose e divertenti, fra linguaggio della fotografia e quello della psicologia e della Psicosintesi, che rendono suggestiva l’idea di incontro fra “sguardo fotografico” e “sguardo terapeutico”.
Luce e ombra sono assunti fondamentali, “maneggiati” nel setting terapeutico e nel set fotografico, capita in effetti che set e setting possano coesistere e coincidere.
Obbiettivo non è solo un oggetto che seleziona l’angolo di campo dell’inquadratura, ma diventa un gioco di parole se lo pensiamo, insieme al corpo macchina, come “l’oggetto che permette al soggetto di fare una foto ad un oggetto che però è anche il soggetto…” evidenziando fra l’altro la presenza di due soggetti il che richiama il “campo terapeutico”, inoltre con un richiamo anche alla necessità dell’integrazione col corpo.
Qui viene in mente la profondità di campo, quanto e quale spazio vogliamo mettere a fuoco, e quindi il focus della terapia.
Gli aspetti della scelta e del punto di vista, richiamano concetti come volontà e identificazione/disidentificazione: con quale sguardo di quale sub-personalità ci muoviamo? con che consapevolezza?
Il rapporto tra apertura del diaframma e tempi di posa, ci dà la quantità di luce nell’unità di tempo: stesso risultato si ottiene con tempi lenti e poca apertura o brevi e molta apertura, ma l’effetto cambia se abbiamo soggetti in movimento o immobili, come dire che a parità di luce necessaria per non sovraesporre o sottoesporre, bisogna regolarsi diversamente, come ad esempio interpretazione e chiarificazione vengono modulate sulle caratteristiche di quel paziente in quel momento terapeutico: insomma il concetto di “esposizione” cioè quanta luce, come e in che unità di tempo.
L’eccessiva o scarsa esposizione fanno pensare a rischi di inflazione o regressione, come mancanza di radicamento e troppo transpersonale o viceversa un indugiare nell’inconscio.
In fondo torniamo al concetto iniziale e fondamentale di luce e ombra, dove l’esposizione è la possibilità di modulare la scena insieme al gioco dei chiaroscuri che esistono nel set-ting.
Poi il supporto, la pellicola, la troviamo citata come esempio da Assagioli quando scrive che l’inconscio plastico è come un magazzino di materiale fotografico a disposizione di una pellicola vergine, mentre l’inconscio condizionato risulta già esposto.
Così possiamo scoprire nuove immagini che ci appartengono, e farle vivere impressionando la pellicola nuova con la loro peculiarità espressa dalle leggi psicologiche della volontà sapiente di cui la prima: “Le immagini o figure mentali e le idee tendono a produrre le condizioni fisiche e gli atti esterni ad esse corrispondenti”.
Ecco che se “conosci” un po’ la fotografia e “possiedi” uno strumento per fotografare, puoi ottenere immagini di “trasformazione” ed anche “trasformare immagini”, e magari nel contempo attuare il processo di fondo della Psicosintesi del “conosci-possiedi-trasforma te stesso”…
Ancora un cenno alla camera oscura, luogo magico dove si lavora la pellicola in b/n.
Il rullino si sviluppa ottenendo un negativo, dal quale ricaveremo la proiezione dell’immagine per la stampa su un “supporto”, la carta fotografica che tratterrà l’immagine fotografata e a questo punto visibile.
È quindi un processo di sviluppo, da “negativo a positivo”, che necessita di passaggi quasi alchemici (stanza buia, luce rossa, luce bianca, reazioni chimiche e fisiche) attraverso tre liquidi rivelatore-stop-fissaggio.
Quindi uno “sviluppo” per una “rivelazione” finale dal buio alla luce. È un processo delicato ed è importante decidere quando interrompere il primo bagno tenendo d’occhio l’immagine che “cresce” di intensità e passarla nel bagno di stop che ferma il processo per ottenere poi un buon fissaggio, in modo che la stampa realizzata non svanisca presto una volta esposta alla luce esterna.
Come a ricordare che oltre ai chiaroscuri e alla luce della crescita terapeutica del setting c’è poi la luce del mondo esterno.

CONCLUSIONI

Utilizzare la fotografia, anche abbinata con altre tecniche come la scrittura, offre la possibilità di muoversi sui diversi aspetti della psicologia, come quello cognitivo, dinamico, educativo, analitico, in fasi successive e organizzate, ma anche cicliche se non compresenti.
Secondo i casi e i momenti l’una o l’altra può essere più indicata o comunque possibile.
In generale si presta particolarmente per le situazioni dove può essere utile utilizzare solo o anche una terapia non verbale come per l’adolescenza o nelle psicosi, e non solo in senso strettamente terapeutico, ma anche educativo e riabilitativo.
È molto ben utilizzabile con gruppi di crescita o autoconoscenza, e inseribile in fasi della psicoterapia individuale.
Inoltre un uso proiettivo, analitico e di dialogo con immagini fotografiche, può aiutare nell’esplorazione dei tre livelli rappresentati dall’uovo di Assagioli, così come un lavoro misto, di osservazione e esplorazione di foto, e di scatto, può aiutare a scoprire e conoscere di più gli aspetti personali delle funzioni della stella e della tipologia individuale
Lo stesso strumento, oggi più che mai, può contribuire a svuotare le immagini di senso e contenuto, o diversamente, creativamente e perché no psicosinteticamente utilizzato, a renderle portatrici di conoscenza crescita e trasformazione.

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