Psicosintesi e psicosi schizofrenica considerazioni psicoterapeutiche

Rivista di Psicosintesi Terapeutica – Anno XIV Numero 28, Settembre 2013

PSICOSINTESI E PSICOSI SCHIZOFRENICA CONSIDERAZIONI PSICOTERAPEUTICHE

di Alberto Alberti
Medico neuropsichiatra e psicoterapeuta, è stato allievo e collaboratore di Roberto Assagioli e socio fondatore H. C. dell’Istituto di Psicosintesi. È socio fondatore e didatta della Società Italiana di Psicosintesi Terapeutica, docente della Scuola di Psicoterapia Psicosintetica SIPT, Firenze.
Indirizzo per la corrispondenza: info@luomoedizioni.it.

The treatment of schizophrenic disorder, in view of psychosynthesis, is a mixed therapy, which includes, in a therapeutic relationship, pharmacotherapy, psychotherapy, reconstructive therapy or rehabilitation, social and group therapy and spiritual therapy or the care of the soul. This article makes some considerations limited to the psychotherapeutic intervention, understood as part of a wider treatment plan.
Keywords: psychosynthesis, schizophrenic disorder, mixed therapy, psychotherapy.

La terapia psicosintetica del disturbo schizofrenico è una terapia mista comprensiva, nell’ambito di una relazione terapeutica, della terapia somatica (farmacoterapia), della terapia psichica (psicoterapia in senso stretto), della terapia di ricostruzione o riabilitazione, delle terapie di gruppo e sociali (socioterapia) e della terapia spirituale o cura dell’anima. In questo articolo vengono fatte alcune considerazioni limitatamente all’intervento psicoterapeutico, inteso come parte di un progetto e piano terapeutico più ampio.
Parole chiave: psicosintesi, disturbo schizofrenico, terapia mista, psicoterapia.

«La schizofrenia è una psicosi cronica,
che altera profondamente la personalità
e che si manifesta attraverso una tendenza
a costruire il proprio mondo
non più in comunicazione con gli altri,
ma perdendosi all’interno di un pensiero autistico,
cioè in un caos immaginario»[1].

H. Ey

Ci sembra di intravedere nel disturbo schizofrenico la presenza di un fattore, che pare esercitare un importante ruolo patogenetico: un vuoto di anima, una mancata percezione di vita, di gioia e di amore in se stesso, negli altri e nel mondo esterno. Si tratterebbe di una disconnessione, che fa venire meno la percezione di un senso buono della vita: un fenomeno di svuotamento vitale o de-animazione di sé e della realtà oggettiva. Tutto diventa come freddo, morto, meccanico, finto, falso: potremmo dire, seguendo l’espressione di una paziente, una «fotocopia della vita».

Questo vuoto di anima apre quella che possiamo chiamare una “voragine del nulla”, un’assenza, un non essere assoluto, dove pare disperdersi e volatilizzarsi una disperata percezione di autocoscienza, come possiamo evincere da questa drammatica testimonianza:

«Se penso che io esisto, provo un senso di assurdità… paura di esserci, paura di esistere… Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Essere cosciente di essere vivo mi dà terrore… è tremendo esserci, essere venuto… Da dove sono venuto? Mi sembra di venire dal nulla, dal buio… Aver coscienza di aver coscienza è tremendo, angoscioso… Io non ho radice, sono sospeso nel vuoto… Sono vuoto e fuori di me c’è il vuoto… Io non sono padrone, sono un fantoccio che subisce gli eventi anche dentro di sé… è angoscioso pensare all’io vuoto… Se penso al mio io lo sento come una mancanza… Mi sembra impossibile che ci sia il mondo e che io esista… Unica presenza accanto all’io è la morte».

Tale esperienza, dove paradossalmente l’unica presenza avvertita di vita dell’io e del mondo è la morte, fa precipitare il soggetto schizofrenico in una dimensione di diversità, nella quale egli manifesta una particolare e più ampia recettività. Questa accresciuta sensitività sembra quasi un tentativo di ri-vitalizzazione o ri-animazione: è come se il paziente cercasse di allontanarsi da un mondo di cose morte, al fine di cogliere altrove qualcosa di vivo. Di fatto egli viene a trovarsi immerso in un neo-mondo animistico e vitale, dove si muovono presenze ambigue, suadenti e/o terrificanti, dove si intravedono immagini di luce e di tenebre, dove si odono suoni, voci, messaggi strani e spesso incomprensibili, dove domina una visione negativa della vita ed un capovolgimento di valori. In questo nuovo mondo la vita appare come guidata dall’ingiustizia e prevale quello che un paziente chiamava il «gusto del male». Il soggetto è travolto da percezioni di grandiosità e inflazionate di sé, e allo stesso tempo da un senso di vulnerabilità e da minacce di annientamento e disintegrazione.

Il paziente schizofrenico non è in grado di comprendere il significato di tale dimensione e delle presenze che avverte[2], non riesce a decifrare il linguaggio del mondo in cui è precipitato, né a distinguerlo dalle comunicazioni provenienti dalla realtà oggettiva: confonde gli spazi interni con quelli esterni, l’immagine di sé con quella degli altri, le voci di dentro con quelle provenienti da fuori. Potremmo dire che egli mescola i linguaggi. Ne deriva una situazione ambigua, ibrida, confusa, derivante dalla mescolanza dei due mondi, entrambi percepiti dal paziente come veri.

Il suo tentativo sarà quello di adattare il mondo esterno a quello interno. La realtà oggettiva – qual era prima – non è tollerabile, per cui è stata svuotata di vita, di senso e di buoni sentimenti, ridotta a un qualcosa di razionale, freddo e meccanico. Al contrario il nuovo mondo interno è percepito come intenso, vivo, animato, ed in un certo senso più reale. Ciò spingerà il paziente a una re-interpretazione della realtà esterna oggettiva alla luce dei vissuti interni soggettivi.

Questo tentativo non riuscirà mai del tutto, per cui il paziente non cesserà di confondersi nell’oscillare fra i due mondi: potrà perdersi nella disorganizzazione psichica; oppure, potrà evitare il completo sfacelo mentale, se sarà in grado di crearsi un proprio mondo delirante, non compatibile con la realtà oggettiva, ma che – se ben strutturato – gli permetterà di mantenere una sufficientemente stabile coesione interna.

La costruzione di un “io delirante” è forse la sua unica possibilità di poggiare su di un “centro unificatore”, certamente un falso io, ma che è pur sempre meglio del nulla assoluto, del vuoto, del non essere. L’io delirante costituisce un tentativo patologico di riempire un vuoto, l’assenza dell’anima, la mancanza di senso e direzione, la mancata percezione di vita in se stesso, negli altri, nelle cose e in tutto l’universo.

È come se il soggetto schizofrenico avesse ritratto l’anima dal mondo esterno e fosse ricaduto, quasi per una legge di contrappasso, in una nuova dimensione vitale: pressoché un tentativo patologico di ri-animazione, con la differenza però che il nuovo centro unificatore e animatore non è l’”anima buona” della vita, ma quello che potremmo chiamare, prendendo a prestito il titolo italiano di un famoso film di Renoir, l’angelo del male[3].

CONSIDERAZIONI TERAPEUTICHE GENERALI

«Il problema di base nella terapia degli schizofrenici è se sia preferibile cercare di incoraggiarli ad aprirsi con mezzi psicoanalitici, in modo da tirare fuori quello che “bolle in pentola”, oppure se sia meglio sottrarre energia dalla “pentola”, incanalandola verso altre attività, ossia rafforzando la parte sana senza toccare quella malata. Da parte mia ritengo, in via prudenziale, che sia preferibile cercare di impiegare il secondo metodo, esimendosi dal toccare il nucleo […] perché quello è un coperchio pericoloso da sollevare»[4].

R. Assagioli

Seguendo il pensiero di Assagioli, la terapia del disturbo schizofrenico si dovrà fondare sul ridimensionamento e controllo della parte malata e sull’educazione e sviluppo della parte sana. La patologia si è innestata su di un vuoto di salute, su di una mancanza, un’assenza. Ciò che manca è l’individualità, l’esser-ci, il Sé, l’anima. Manca la percezione dell’anima delle cose: tutto è morto, inanimato, devitalizzato. L’assenza di anima porta alla perdita di un centro unificatore, con conseguente graduale decomposizione e frammentazione della realtà individuale e del mondo esterno.

Lo scopo principale della terapia consiste nel porre ciò che è assente, cioè dare e/o restituire al soggetto ciò di cui è carente:

  • il senso di individualità, la percezione di un’anima individuale, cioè di un “io” autentico, che non sia né un io megalomanico delirante, né un fantasmatico io minuscolo sotto il continuo rischio di annientamento e disintegrazione, né un io fittizio, fotocopia mentale e appendice inconsistente di un mondo svuotato di anima;
  • il senso buono della vita, cioè una visione positiva della vita, la capacità di vedere tutto l’universo come fondato su valori di giustizia, amore, gioia, bellezza e mosso da una volontà di bene;
  • il senso della realtà oggettiva, restituito mediante un lavoro terapeutico-riabilitativo della personalità a livello individuale e sociale. Il paziente viene aiutato a costruirsi un modello ideale e allo stesso tempo realistico di sé, conforme alla sua individualità, ma anche compatibile con gli altri, il mondo esterno e la realtà oggettiva;
  • il senso socio-relazionale, ovvero la capacità/volontà di porsi in relazione, il superamento della tendenza all’isolamento, il risveglio/recupero del sentimento di partecipazione e interdipendenza con gli altri e col mondo, il sentirsi parte di un tutto.

La terapia psicosintetica del disturbo schizofrenico è una terapia mista comprensiva, nell’ambito di una relazione terapeutica, della terapia somatica (farmacoterapia), della terapia psichica (psicoterapia in senso stretto), della terapia di ricostruzione o riabilitazione, delle terapie di gruppo e sociali (socioterapia) e della terapia spirituale o cura dell’anima.

Si poggia quindi su di un “insieme” di elementi e fattori terapeutici, che agiscono in modo sinergico. Distinguiamo pertanto:

  1. Relazione terapeutica
  2. Terapia farmacologica
  3. Psicoterapia
  4. Riabilitazione
    – individuale
    – inter-individuale (socioterapia)
  5. Terapia spirituale.

    In questo articolo saranno trattati soltanto alcuni aspetti del lavoro psicoterapeutico in senso stretto, con alcuni accenni alla relazione terapeutica[5].

PSICOTERAPIA

«La psicoterapia deve restare l’ostinato sforzo di due persone
di recuperare l’integrità dell’essere uomini
tramite il rapporto che c’è tra di loro»[6].

R. D. Laing

L’intervento psicoterapeutico, nel disturbo schizofrenico, non può essere esclusivo. Ha senso, come già accennato, quale parte di un insieme, cioè solo se considerato come “parte” di un piano terapeutico-riabilitativo più ampio, comprendente tutte le dimensioni dell’esserci umano (fisica, psichica, relazionale, sociale, spirituale).

Fatta questa precisazione, possiamo comunque cercare di delineare alcuni aspetti e caratteristiche, che riteniamo tra i più importanti e utili, dell’intervento specificamente psicoterapeutico.

La psicoterapia in senso stretto delle psicosi[7] può essere definita come “la cura con mezzi psicologici della psicopatologia, intesa come una deviazione dal percorso esistenziale di autorealizzazione (e conseguente disorganizzazione e/o organizzazione patologica della sofferenza psichica); le caratteristiche di tale intervento sono la ridefinizione della patologia in termini di sofferenza esistenziale, la cura e/o controllo dei disturbi specificamente psichici, e il completamento e/o correzione del processo di formazione del senso dell’io o identità individuale, al fine ultimo di riportare il soggetto psicotico in contatto con se stesso e la realtà oggettiva e di re-immetterlo, per quanto possibile, nel suo percorso esistenziale di auto-realizzazione”.

Distinguiamo pertanto nella psicoterapia in senso stretto dei disturbi psicotici, in ottica psicosintetica, tre parti o aspetti:

  1. Ri-definizione della malattia in termini esistenziali
  2. Intervento sulla parte patologica
  3. Completamento e/o correzione del processo di formazione dell’io.

La psicoterapia, così come qualsiasi forma di terapia, poggia sulla relazione terapeutica. In particolare nel disturbo schizofrenico è molto importante riuscire a stabilire un rapporto terapeutico di fiducia che, data la tendenza del paziente al ritiro sociale, costituisce già di per sé un primo e fondamentale movimento relazionale e quindi un iniziale atto terapeutico.

RELAZIONE TERAPEUTICA

«[…] ormai gli psichiatri possono ritenere per certo che, almeno teoricamente, è possibile stabilire un rapporto medico-paziente col paziente schizofrenico. Nei casi in cui ciò appaia impossibile, il motivo risiede nelle difficoltà personali del medico e non già nella psicopatologia del paziente»[8].

F. Fromm-Reichmann

La relazione terapeutica è il cardine, il perno di ogni terapia, comprese quelle biologiche, fisiche e farmacologiche.

Pur essendo la psicosi schizofrenica una malattia grave che investe quasi totalmente la personalità del paziente, in ogni essere umano permane sempre una parte, che non si fa travolgere dalla patologia e con la quale è possibile stabilire una relazione autentica.

Ci sentiamo di affermare che in ogni essere umano esiste, per natura, una parte immune dalle malattie. Le malattie, in generale, sono come delle lenti di ingrandimento, che evidenziano e rendono macroscopici aspetti parziali, presenti in ciascuno. Ma ciò che è parte, pur ingrandito, non potrà mai raggiungere la totalità. Il tutto non si lascia assorbire da ciò che è parte. Ogni patologia, in quanto parte, ha in se stessa il suo limite.

È pertanto fondamentale, al di là delle relazioni inconsce transferenziali, riuscire ad instaurare un rapporto di cooperazione cosciente e volontaria, facendo appello alle parti sane. L’uomo paziente inizialmente è in parte perso e disperso in un mondo indifferenziato e autistico, nel suo caos interno, in parte è imbrigliato e confuso nel legame simbiotico col Tu genitoriale, ma in parte è presente e disponibile per un processo di individuazione e di autonomia.

La cosa principale nel trattamento dei disturbi psicotici schizofrenici è riuscire a stabilire col paziente un rapporto di fiducia e un’alleanza con la sua parte sana.

Fiducia
Da questo punto di vista, la psicosintesi è in pieno accordo con quanto hanno affermato autorevoli psichiatri come per esempio Harry Stack Sullivan, che ha detto che la terapia della schizofrenia deve poter offrire un «rapporto di sicurezza superiore a qualunque altra relazione precedente»; come Frida Fromm-Reichmann che ha scritto che la terapia della schizofrenia deve intendersi come «un modo specifico per mezzo del quale i pazienti possano aver fiducia nel mondo e in se stessi»; come Silvano Arieti che ha affermato che è necessario stabilire un rapporto terapeutico di fiducia, caratterizzato da una tonalità emotiva e uno scambio di sentimenti, che realizzano una «atmosfera di attesa piena di speranza»[9].

L’instaurazione, il prima possibile, di un rapporto di fiducia costituisce la parte più importante della terapia del disturbo schizofrenico. Il paziente infatti non si fida degli altri, spesso è anche ostile e oppositivo. Un fattore che è concausa o che comunque sostiene la sua patologia è, appunto, la sua diffidenza, il suo dire di no agli altri e alla vita, la sua incapacità di fidarsi e di affidarsi, la sua incertezza esistenziale, il suo esserci e non esserci, il suo stare in una specie di limbo (cioè nel mezzo: né fuori, né dentro la vita). Per questo la fiducia non sarà solo importante come terreno di base su cui far attecchire il processo terapeutico, ma avrà di per sé notevole valenza terapeutica.

Indichiamo, a seguire, alcuni aspetti della relazione e dell’atteggiamento terapeutico ed alcune caratteristiche della personalità e dell’atteggiamento del terapeuta, che consideriamo importanti ai fini di una maggiore efficacia nella terapia per il disturbo schizofrenico.

Distanza-vicinanza
Il terapeuta, in linea generale, deve essere capace di regolare la distanza-vicinanza tra lui e il paziente. Ciò vale per tutte le relazioni terapeutiche, ma in particolare per quelle con soggetti affetti da disturbo schizofrenico. Deve essere cioè abbastanza vicino al paziente, sì da non farlo sentire solo, ma anche abbastanza lontano, sì da non fargli paura (e, potremmo aggiungere, per non aver paura egli stesso). Possiamo indicare il giusto modo di porsi del terapeuta con una triplice formula.

Il terapeuta deve essere:

  • presente (ascolto, recettività, accoglienza, amore);
  • non invadente (rispetto e non invadenza degli spazi psichici del paziente);
  • non invaso (forza e resistenza alle tendenze invasive, di manipolazione e di fusione simbiotica del paziente).

Familiarità
Il paziente schizofrenico si sente spesso come un diverso, uno straniero, quasi un “extra terrestre”, per cui è importante che possa riuscire a sentirsi come a casa propria, come in famiglia (nel senso buono del termine). Il terapeuta, in quanto rappresentante della famiglia umana, deve riuscire a trasmettergli un senso di accoglienza, familiarità e appartenenza. Deve potergli far sentire che la famiglia umana, di cui volente o nolente, nonostante i suoi tentativi di tirarsi indietro e di isolarsi, continua a far parte, non è cattiva, ma buona. Per ottenere ciò egli si pone, nei vari momenti della relazione, come una buona madre, che ama senza essere soffocante, e un buon padre, che fa da guida e punto di riferimento, senza opprimere né incutere timore.

Amore
Il soggetto affetto da disturbo schizofrenico ha sofferto a causa di un amore assente oppure distorto, alterato, possessivo, invadente, simbiotico. L’amore è pertanto fondamentale per la sua terapia. Ma solo un amore autentico può avere un reale effetto curativo. R. D. Laing mette in guardia dagli effetti devastanti di quella che chiama la “mistificazione dell’amore”:

«Per poter avere un rapporto da essere umano con un’altra persona è necessario possedere un senso solido della propria autonomia e della propria identità: se non è così ogni rapporto minaccia l’individuo di perdita dell’identità. Una forma particolare di questa perdita può chiamarsi “risucchio” […] il risucchio è vissuto come il rischio costante di essere compreso (quindi afferrato, preso), o di essere amato, o semplicemente di essere visto. Essere capiti significa essere risucchiati, circondati, inghiottiti, annegati, mangiati, soffocati dall’abbraccio della presunta comprensione dell’altra persona […] l’amore dell’altro è perciò più temuto del suo odio, o meglio, l’amore è sentito come una forma di odio»[10].

L’amore vero, al contrario, non opprime, non risucchia l’identità individuale, non crea simbiosi. Ha le sue radici nella libertà: è libertà di amare e amore dell’altro nella sua libertà di essere se stesso; riconosce e rispetta le identità di chi ama e di chi è amato. L’amore vero non sottrae, ma libera l’individualità: riconosce le potenzialità individuali, le accoglie, le protegge e le educa.

Per questo R. D. Laing non si contraddice, quando scrive:

«Il fattore principale nella reintegrazione del paziente, nel rimettere insieme i pezzi, è l’amore del terapeuta; un amore che riconosca il paziente nella totalità del suo essere e che lo accetti senza riserve»[11].

Innocuità
Un aspetto importante dell’amore del terapeuta, su cui è utile soffermarsi, è l’innocuità. Il paziente è immerso in una visione negativa della vita. Ha paura di qualsiasi intervento attivo del terapeuta su di lui, anche se apparentemente “buono”; egli è diffidente e pensa che anche ciò che sembra “bene” possa in realtà nascondere un possibile “male”. Oppure anche se il terapeuta ha intenzioni di per sé buone, potrebbe non essere sufficientemente competente e commettere errori. Il terapeuta deve pertanto, prima di tutto, riuscire a dargli una sensazione di innocuità, come dire: “non ti farò del male”.

Autenticità
Il paziente si sente fragile, vulnerabile, vuoto interiormente, e si vergogna di mostrarsi “nudo” e di lasciar trasparire il suo nulla, l’assenza della sua anima. Egli pertanto non potrà riporre la sua fiducia nel terapeuta, se avrà l’impressione che sia arrogante, che non sia capace e competente, che non sia responsabile, che non sia amorevole, insomma che non sia “degno”. Il paziente si sente come deprivato o mancante della sua individualità, del suo Sé, e non farà entrare nel proprio vuoto interno un terapeuta che non sia in contatto con la propria anima. La relazione terapeutica, nel disturbo schizofrenico, è una continua sfida al grado di autenticità e di autoformazione del terapeuta.

È come se il paziente dicesse: “Tu che ti dici terapeuta, che ti dici in grado di guarirmi, sei stato in grado di guarire te stesso? Tu che vuoi entrare nel vuoto della mia anima, sei in possesso della tua?”.

Traduzione e conduzione
Il paziente è per lo più confuso su di sé e sulla realtà, comunica in modo ambiguo e incoerente. Egli confonde suoni, voci e messaggi interni con suoni, voci e comunicazioni che provengono dal mondo esterno, per cui non riesce a comprendere il significato e i diversi linguaggi. Egli è come la “Torre di Babele”, per cui mescola i linguaggi. È necessario che il terapeuta sia un traduttore delle comunicazioni del paziente, le sappia ascoltare, distinguere, comprendere e restituirgliele trasformate in modo chiaro e comprensibile.

Il disturbo schizofrenico può essere considerato, per certi aspetti, come una patologia della verità, per cui una parte della terapia è proprio costituita dalla trasformazione graduale delle comunicazioni ambigue del paziente in un linguaggio sempre più chiaro e veritiero.

Il terapeuta, traducendo gradualmente il linguaggio confuso del paziente, assume indirettamente anche il ruolo di conduttore: gli fa da guida, aiutandolo a compiere un cammino a ritroso dal suo mondo psicotico verso la realtà oggettiva. Questo tragitto di ritorno e rientro nella realtà e nella comunità sociale potrà essere effettuato dall’uomo paziente solo se l’uomo terapeuta riesce a trasmettergli un senso buono dell’esistenza, conducendolo a riscoprire una vita di nuovo animata, viva e vitale in senso positivo e giusto (altrimenti il paziente preferirà restare nel suo mondo psicotico).

Per poter fare questo e per essere credibile, il terapeuta deve prima di tutto avere fiducia egli stesso in una visione positiva della vita, porsi come modello di credenza buona, essere capace di trasmettere una sensazione di bellezza,

valore e positività di tutta l’esistenza umana, e dare anche la sensazione che tale bontà e positività del mondo esterno e reale sia raggiungibile.

Umiltà
Il paziente comunica al terapeuta la sua dicotomia, il suo sentirsi un nulla, ma anche la sua arroganza: compito del terapeuta sarà quello di restituirgli il senso delle giuste proporzioni. Lo potrà fare se è in contatto col proprio “humus”, con la propria umanità, se conosce e riconosce sia i propri limiti che le proprie potenzialità. L’umiltà permette al terapeuta di ricevere, accogliere, metabolizzare la dualità che lacera il paziente, trasformarla in se stesso e restituirgliela ricomposta nelle giuste proporzioni e in un’adeguata sintesi. L’uomo terapeuta non deve esaltarsi (onnipotenza terapeutica), né avvilirsi (impotenza terapeutica), ma resistere e continuare instancabilmente la sua opera terapeutica, attraversando “indenne” le fasi di apparente e/o transitorio successo o insuccesso.

Riconoscimento del paziente come un Tu e come un Sé
Qualunque sia l’entità e la gravità della patologia, è fondamentale che il terapeuta non identifichi il paziente con la sua malattia, ma riconosca sempre l’”uomo” che sta dietro e in profondità (“uomo paziente”); il terapeuta deve rivolgersi al paziente “come se” fosse un soggetto vivente, un Tu dotato di una certa quota di coscienza, di volontà, di sentimento e di capacità relazionale.

Il terapeuta inoltre deve saper andare ancora oltre, al fine di mettersi in contatto con la sua umanità più vera e profonda, con la sua essenza, col suo Sé. Egli deve sapersi mettere in atteggiamento di ascolto non solo dei messaggi della personalità del paziente, ma anche della più profonda parola dell’anima.

Mi piace ricordare le bellissime parole di monito di V. E. Frankl:

«Se il mio compito consistesse nel curare un ‘meccanismo psichico’ guasto o un ‘apparato’ psichico in rovina, insomma una macchina rotta, io non vorrei più essere psichiatra; io sono psichiatra per servire ciò che vi è di umano nel malato e ciò che vi è di spirituale nell’uomo, perché a questo tutto il resto è subordinato»[12].

RIDEFINIZIONE DELLA MALATTIA IN TERMINI ESISTENZIALI

«Ci sono avvenimenti
che da soli non si riesce a spiegarli
nella vita».

Testimonianza

In sede psicoterapeutica non aiuta cercare di spiegare al paziente la sua malattia, attribuendole un’etichetta morbosa. Dire al paziente che è affetto da “schizofrenia” non spiega nulla e non aiuta a comprendere. Oltre tutto un’etichetta è un qualcosa di statico, di fermo nel tempo, che dà al paziente (ed anche al terapeuta) una sensazione di fissità e di resistenza a ogni possibilità di cambiamento. È molto più utile riuscire a definire e comunicare la patologia in termini esistenziali, sì da favorire una comprensione e anche dare la sensazione di una possibilità di risoluzione in senso positivo ed evolutivo.

Possiamo per esempio ridefinire la patologia come un “evento traumatico della vita, una ferita terribile e a prima vista incomprensibile, che svuota la realtà oggettiva di ogni elemento vitale, sradicando il paziente dal suo percorso esistenziale naturale e proiettandolo fuori di sé, fuori dagli altri, fuori dalla realtà esterna, fuori dalla vita, e facendolo precipitare in una dimensione di diversità e di particolare sensitività; il paziente si sente come catapultato in un nuovo mondo animistico dove tutto è nebuloso e confuso, dove ogni cosa appare strana e ambigua, dove tutto sembra e non sembra, dove si agitano presenze fantasmatiche, suoni, voci e visioni, dove significati e valori appaiono come capovolti, dove sembra prevalere una visione negativa della vita e dove il paziente viene trovarsi in estrema solitudine immerso in una sensazione tragica di mancanza e di vuoto, sotto la continua minaccia del suo annientamento”.

Partendo da questa ri-definizione della patologia in termini esistenziali, sarà possibile per l’uomo terapeuta porsi e proporsi in modo utile. Possiamo indicare, a seguire, alcuni vantaggi, che derivano da un atteggiamento esistenziale.

  1. Riduzione della connotazione patologica del disturbo. Il disturbo viene interpretato come un evento esistenziale, cioè facente parte delle possibilità umane del vivere; il terapeuta può riuscire, in questo modo, a dare al paziente una sensazione di “normalità esistenziale” riguardo gli eventi dolorosi che gli stanno accadendo: “La sofferenza è un evento normale della vita e non è di per sé malattia”.
  2. Riduzione del senso di staticità e fissità della patologia. Il disturbo viene reso più mobile e fluido, assume le caratteristiche di un conflitto dinamico, che ha quindi in sé la possibilità del cambiamento e quindi anche, idealmente, della sua risoluzione; si tratta di far capire al paziente che: “il disturbo non è eterno; non c’era nel passato, potrà forse anche scomparire nel futuro”.
  3. Riduzione del senso di incomprensibilità del disturbo. Il paziente affetto da disturbo schizofrenico non riesce a capire ciò che gli sta succedendo (in particolare nella fase iniziale dell’affezione), e questo lo angoscia terribilmente. La ri-definizione esistenziale dà al soggetto la sensazione della possibilità di un senso e di una comprensione; il terapeuta non fornisce al paziente una rapida e semplicistica spiegazione (che sarebbe prematura e comunque non accettata), ma gli si accosta e gli dice: “Cercheremo di capire insieme”.
  4. Riduzione del senso di solitudine e di isolamento. Il paziente soffre non solo per la sua patologia, ma anche, e soprattutto, perché si è sentito e continua a sentirsi “solo” nella sua malattia. Una “psicoterapia esistenziale” comporta la presenza di un “altro” (l’uomo terapeuta), che si pone accanto all’uomo paziente, che c’è con lui e per lui, e lo aiuta a “ri-definire” e “comprendere” la forma e il significato della sua sofferenza, e insieme a lui cerca di trovare una possibile soluzione.
  5. Acquisizione di significatività e possibilità evolutiva. La ri-definizione esistenziale secondo l’ottica psicosintetica viene effettuata facendo riferimento a una visione positiva della vita. In tal modo viene data al paziente la sensazione non solo che la sua sofferenza è un evento normale della vita, ma anche che potrebbe contenere in sé una indicazione positiva, essere cioè un’opportunità per un cambiamento nel senso di una maturazione e crescita.

INTERVENTO SULLA PARTE PATOLOGICA

Il primo intervento del terapeuta è rivolto alla parte patologica del paziente, cioè alla sua sofferenza, alla sua situazione di disagio, che è la prima cosa che il paziente comunica. Tale intervento è prima di tutto farmacologico, ma anche psicologico-psicoterapico. Esso deve tendere al ri-dimensionamento della parte patologica, all’attenuazione dei sintomi, in particolare dell’ansia psicotica, dei deliri e delle allucinazioni, nonché del vissuto di isolamento e di solitudine.

1. Atteggiamento terapeutico. L’operatore terapeutico, nel suo rapportarsi al paziente e alla sua patologia psicotica, deve in generale fare attenzione a evitare alcuni possibili errori di atteggiamento, quali l’eccessivo coinvolgimento e l’eccessivo distacco.

  • L’operatore, sotto la spinta del suo desiderio di aiutare, può a volte calarsi così tanto nel mondo psicotico del paziente, da rischiare di venirne risucchiato, e di restarne imbrigliato, e da trovare poi forti difficoltà non solo a comprenderlo, ma anche a uscirne. Si può realizzare insomma un vero e proprio processo di identificazione del terapeuta con la patologia psicotica. L’operatore può anche arrivare a “credere” nel delirio del paziente, sì da non essere più in grado di discriminare tra realtà esterna ed oggettiva e mondo psichico interno e soggettivo (“psicosi indotta”). In certi casi, la forza di “fascinazione” delle esperienze psicotiche, la loro “numinosità”, tende ad attrarre l’operatore, dandogli l’impressione che esse nascondano e/o rivelino, comunque contengano in sé, profonde verità sulla vita, il destino e la natura umana.
  • In altri casi l’operatore può cercare di mantenersi troppo distaccato dalle tematiche deliranti e allucinatorie, ponendo una distanza eccessiva tra sé e il mondo psicotico del paziente. Questo atteggiamento può a volte avere il significato di meccanismo difensivo, in quanto esprime il timore da parte dell’operatore di non essere in grado di controllare il proprio coinvolgimento. In questo caso il terapeuta non potrà essere sufficientemente empatico e recettivo, non sarà capace di ascoltare e comprendere almeno in parte la sofferenza psicotica. Egli cercherà di etichettare la patologia e si affiderà quasi esclusivamente a un trattamento farmacologico. In altri casi tenderà a non dare troppa importanza ai fenomeni allucinatori e alle idee deliranti, a non considerarli nella loro tragica drammaticità e a minimizzarli, ritenendoli come semplici “fantasie”, alle quali neppure il paziente crede eccessivamente.

L’atteggiamento terapeutico utile è quello di farsi coinvolgere, senza farsi travolgere. Il terapeuta deve potersi calare nel “sentire” del paziente, senza perdere le sue capacità critiche e razionali, e deve potere “ricevere” parte della sintomatologia psicotica del paziente, senza però diventare egli stesso psicotico. Il paziente, anche se spesso si maschera con un atteggiamento difensivo arrogante o di chiusura, in realtà e in profondità ha bisogno di comunicare la sua sofferenza, e di sentire che questa sua sofferenza viene in qualche modo, anche per vie inconsce, “ricevuta”.

2. Ascolto serio e attento della sofferenza del paziente. Le esperienze psicotiche (deliri, allucinazioni, ecc.) non sono percepite dal paziente come un qualcosa di astratto, ma come una vera e propria realtà concreta. E il vissuto non è solo quello di una patologia esclusivamente mentale: la psicosi non investe solo il pensare, ma anche il sentire, e non tanto il sentire emotivo e affettivo, quanto soprattutto il sentire materiale, corporeo, sensoriale. Il mondo psicotico costituisce per il paziente una realtà concreta sia fisica che mentale: egli può quasi “misurare” e “pesare” i suoi deliri e le sue allucinazioni[13].
Pertanto le esperienze psicotiche non devono essere amplificate, ma neppure minimizzate, né tanto meno trattate con sufficienza o, ancor peggio, derise. Devono essere ascoltate con serietà, attenzione e rispetto.

3. Condivisione della sofferenza (e astensione dal giudizio sulla verità o falsità del delirio). L’operatore si pone in relazione con le esperienze deliranti del paziente, si pone accanto a lui ed entra in parte nel suo mondo, per sentire e sostenere insieme a lui la sua sofferenza. Naturalmente non deve accettare come vero il delirio, ma è tenuto però a riconoscere come vera la sofferenza, la quale fa tutt’uno con le modalità con cui il paziente la interpreta. Il terapeuta si astiene dal giudizio di verità o falsità, ma condivide e partecipa della sofferenza soggettiva. Egli, pur senza entrare in merito al giudizio sul delirio, deve riuscire a far sentire al paziente che si rende ben conto della gravità e drammaticità della sua sofferenza.
Può per esempio dire al paziente: “Si deve stare veramente molto male a sentirsi da soli con tutto il mondo contro, così come ti senti tu”.
, non è per questo meno vivo e reale. Egli soffre veramente: deve sostenere la terribile sensazione che tutto sia contro di lui, e contro lui “solo”, per cui dal suo punto di vista “realisticamente” non può farcela. Egli ha bisogno che qualcuno si occupiconcretamente di almeno una parte del peso chel’opprimeelo sovrasta.

4. Inter-posizione terapeutica. Il paziente si sente fragile, inconsistente, quasi “trasparente”; facilmente aggredibile e penetrabile, si sente come senza difese ed esposto ai pericoli e alle minacce del mondo esterno. Il terapeuta deve riuscire in qualche modo a inter-porsi tra il paziente e il suo mondo persecutorio, dandogli così una sensazione di coltre affettiva e un senso di sicurezza e di protezione. Come dire: “Nessuno ti farà più del male”.
Questa “inter-posizione” può essere considerata come una specie di “cuscinetto” protettivo, che corregge l’eccessiva porosità della linea dei confini individuali del paziente. Insomma, una membrana biopsichica sostitutiva e di supporto, che filtra, seleziona e smorza gli input esterni, facendo filtrare solo quelli positivi (progressivi, aggreganti e sintetici) respingendo, per così dire, al “mittente” quelli negativi, regressivi e destrutturanti.

5. Suggerimento della possibilità della cessazione della persecuzione e delle allucinazioni. Nella pratica clinica è bene rendersi conto che il paziente non può accettare, almeno nella fase iniziale del processo terapeutico, una correzione razionale del suo delirio, per cui non può che respingere con tutte le sue forze ogni giudizio di non verità riguardo ciò che lui crede assolutamente vero. Inoltre egli ha bisogno del suo delirio, che rappresenta una “spiegazione strutturata” della sua sofferenza, e che quindi gli serve come meccanismo di difesa dall’angoscia della disorganizzazione del proprio pensiero e di tutto l’apparato psichico. Il paziente non accetterà dunque un giudizio di non verità del suo delirio, ma può accettarne una evoluzione temporale nel senso di una remissione dell’intenzionalità persecutoria. È pertanto possibile e praticamente utile suggerire al paziente la possibilità della cessazione della persecuzione. Si realizza in tal modo un’evoluzione del pensiero schizofrenico (“I persecutori possono interrompere la loro azione persecutoria”[14]), che è possibile, perché non intacca la precedente credenza delirante (e la pseudo-logica che la sosteneva), ma ne costituisce un’evoluzione-trasformazione in senso migliorativo[15].

6. Spiegazione “intermedia” della sofferenza. Il terapeuta si astiene dal giudizio sul delirio, ma può tentare di fornire al paziente una spiegazione della sua sofferenza, che potremmo definire “intermedia” tra l’interpretazione psicotica e quella reale (ciò al fine di favorire un avvicinamento graduale del paziente alla realtà). Una spiegazione – per esempio – del tipo:

“Può capitare a chiunque di venirsi a trovare in uno stato di debolezza e fragilità (per qualsiasi motivo: un malessere fisico, un’influenza, un trauma psichico, ecc.). Quando ciò accade, torniamo a essere come bambini, vulnerabili e del tutto dipendenti dagli altri e dall’ambiente. Se le esperienze vissute in passato non ci hanno dato un sufficiente senso di protezione, questa nuova situazione di dipendenza ci fa sentire insicuri e impauriti. Siamo indifesi e facilmente feribili: chiunque, se volesse, potrebbe schiacciarci, distruggerci, annientarci in un attimo. E il mondo esterno potrebbe non essere buono, ma al contrario malevolo, minaccioso, persecutorio. Insomma, quando siamo deboli e impauriti, è facile arrivare a pensare (erroneamente) che gli altri possano e vogliano approfittare della nostra debolezza e annientarci”.

Questa paura può essere “curata” soltanto dalla presenza di un amore generoso, intelligente e forte, che rassicura e protegge, che non invade e che non abbandona, insomma un amore incondizionato, a cui affidarci. Se questo amore è mancato o non è stato abbastanza forte o comunque non è stato percepito, se questa presenza non c’è stata, e non c’è tuttora, la condizione di vulnerabilità e di dipendenza viene aggravata dallo stato di solitudine e di abbandono. Il problema allora si sposta: non è tanto il sentirsi deboli e vulnerabili (tutti viviamo momenti di temporanea debolezza nel corso dell’esistenza), quanto il sentirsi soli in questa condizione di fragilità e di dipendenza, e come gettati in un mondo che potrebbe anche essere ostile e malevolo (“solitudine nella sofferenza”). Questa spiegazione, unendo insieme tre importanti concetti, quali la vulnerabilità, la solitudine e la possibilità del male può veramente rappresentare una spiegazione intermedia tra quella delirante persecutoria e quella reale, permettendo il graduale schiudersi di una nuova via potenzialmente terapeutica: quella appunto della “possibilità del bene”.

7. Possibilità di una salvazione. Lo psicoterapeuta e i suoi assistenti si pongono come figure amiche, una specie di équipe di ” operatori del bene”, in alternativa agli ” operatori del male ” costituiti dai persecutori. Si cercherà cioè di far sentire al paziente che il mondo esterno non è necessariamente ostile, ma può anche essere buono, amico, o comunque innocuo e non ostile. Questa sensazione, più che suggerita al paziente direttamente con le parole, deve essere fatta percepire, in modo indiretto, mediante gesti, atteggiamenti, emozioni. È possibile insomma che nel mondo esterno vi siano anche figure amiche che, pur senza volerlo invadere, tuttavia si accostino al suo vuoto interno ed alla sua condizione di solitudine, gli tendano la mano e aspettino che anche lui tenda la sua per farsi aiutare.

8. Traduzione del linguaggio in termini semplici e comprensibili. La patologia del paziente non è costituita soltanto dai suoi deliri e dalle sue allucinazioni, ma anche dalle alterazioni formali dell’ideazione, dalla dissociazione, incoerenza e ambiguità del suo pensiero, del suo linguaggio e delle sue comunicazioni. Il terapeuta ha il compito, tra l’altro, di ricevere le comunicazioni alterate del paziente e, se possibile, di restituirgliele in modo chiaro e comprensibile. È questa una funzione specifica del terapeuta, nel trattamento dei disturbi psicotici, di “traduttore” del linguaggio del paziente. Il terapeuta di fatto ascolta le comunicazioni del paziente e gli risponde, riformulandole con un linguaggio semplice, chiaro, comprensibile e veritiero. Ciò mette ordine nella mente confusa e disarticolata del paziente, favorisce in lui un senso di coesione, integrazione e sintesi, ma anche permette e facilita la comprensibilità delle parole e un avvicinamento graduale alla verità. La terapia, da questo punto di vista, può essere considerata come processo di parziale e graduale “restituzione di verità”. Tale restituzione non potrà mai essere totale, in quanto il paziente non è probabilmente in grado di sostenerla con le sue sole forze, e forse neppure con l’aiuto di altri (psicoterapeuta e/o équipe di operatori). Pertanto il recupero di verità deve procedere di pari passo col processo di rimozione.

9. Mantenimento-rinforzo “parziale” della rimozione. può darsi che la verità risulti essere troppo dolorosa per essere sostenuta e tollerata. Probabilmente è proprio per questo che il paziente ha abbandonato la logica aristotelica per adottare una nuova logica[16], che gli permettesse di arrivare a conclusioni diverse dalla verità. La destrutturazione concettuale e la ricostruzione delirante sembrano avere la funzione di difesa da una verità insostenibile come tale. Farla riemergere bruscamente potrebbe risultare più pericoloso e dannoso per il paziente che il delirio stesso. Potrebbe forse riaffiorare un dolore così forte, inesprimibile a parole, incomprensibile e incomunicabile, tale da sommergere e annientare totalmente il paziente. Forse il delirio occulta una verità che non può essere detta e comunicata, e che in qualche modo forse non si vuole neppure più dire, né comunicare.

COMPLETAMENTO E/O CORREZIONE DEL PROCESSO DI FORMAZIONE DELL’IO

Il paziente affetto da disturbo schizofrenico non ha un senso dell’io completato nella sua formazione, non è riuscito a realizzare un senso autentico di individualità e una chiara e sana autocoscienza. La proiezione del raggio del Sé nella personalità non è avvenuta in modo sufficiente e completo o con le modalità corrette. Essendo pertanto privo di un adeguato e solido punto centrale di riferimento (“centro unificatore”), è continuamente esposto alle forze disintegrative. Il terapeuta si pone perciò come io ausiliario e come modello esterno di un’identità sana possibile.

1. Sostegno esterno mediante la relazione terapeutica (alleanza terapeutica). Il terapeuta si pone come “Centro unificatore esterno” transitorio, come centro di coscienza, di volontà e di relazione, insomma come “io” ausiliario sostitutivo che favorisce nel paziente il completamento del processo di formazione di una sana coscienza individualizzata (senso dell’io); o la sostiene, se presente ma fragile e insufficiente; o la corregge, se formatasi in modo alterato. Il potersi appoggiare a un centro unificatore esterno permette al paziente di mantenere un certo grado di sintesi e coesione della personalità, evitando il rischio di uno smembramento totale. Il compito principale del terapeuta sarà quello di aiutare il paziente a contenere la molteplicità psichica e caotica e la spinta alla frammentazione (dissociazione), e anche quello di aiutarlo a controllare la tendenza al deragliamento mentale e al tentativo di costruzione di un mondo psicotico.

2. Ri-collegamento con la realtà oggettiva. Uno degli aspetti strutturali, forse tra i più importanti del disturbo schizofrenico, è la perdita del senso della realtà oggettiva, causata dall’irruzione nel campo della coscienza di particolari contenuti e attività dall’inconscio, che in qualche modo determinano questo scollegamento. Uno dei compiti del terapeuta sarà quello di assumere una funzione specifica “intermediaria” tra il soggetto e la realtà esterna. Egli si pone in una duplice relazione sia con la soggettività del paziente che con la realtà oggettiva. In tal modo fa da “ponte” di collegamento-adattamento col mondo esterno e assume in pratica la funzione di modello esterno di rapporto con la realtà (“Centro unificatore esterno di relazione con la realtà oggettiva”). Il terapeuta ha il compito specifico di “filtrare” per il paziente la realtà oggettiva, rendendogliela più tollerabile senza però alterarla. Insomma è un po’ come se prendesse per mano l’uomo psicotico e lo riconducesse gradualmente e insensibilmente verso il mondo reale[17]. Tale modello esterno di rapporto con la realtà viene dall’uomo che soffre gradualmente introiettato, fino a catalizzare e far riemergere in lui quel centro corrispondente di collegamento col mondo esterno che, a causa della malattia, era stato in qualche modo rimosso.

3. Evocazione-consolidamento di un senso autentico d’identità. L’io di questi soggetti non è riuscito a completare il suo processo di formazione oppure si è formato in modo insufficiente e/o alterato. Viene in ogni caso a mancare nel paziente un centro unificatore valido e con esso un senso di equilibrio e stabilità nella personalità. Un aspetto specifico della cura del paziente psicotico sarà quello di aiutarlo a formarsi un io autentico e realizzare un senso d’identità individuale piena. Il terapeuta si rivolge all’uomo che soffre “come se” fosse un Sé, un soggetto, una persona, un’identità, favorendo così l’emergere e/o riemergere del suo centro di coscienza e di volontà; gli parla, rivolgendosi a lui come se avesse un “Io”, cioè come un “Tu”, un’identità in formazione, al fine di favorirne progressivamente l’affiorare nel corso del colloquio. Per esempio, praticamente, il terapeuta può prestare attenzione, nel corso dei colloqui, a scandire bene il pronome personale del paziente, dicendogli:

“Tu cosa pensi? Quali sono i tuoi pensieri? Tu cosa senti? Quali sono le tue emozioni e i tuoi sentimenti? Tu cosa desideri? Quali sono i tuoi desideri? A te cosa piace e cosa dispiace? Tu cosa vuoi? Qual è la tua volontà?”

Il paziente non è riuscito a realizzare una sua centralità, e con essa una buona coesione e sintesi della personalità: possiamo anche definire questo aspetto della cura un lavoro di “centralizzazione”.

4. Centralità e confini. Il senso dell’io o coscienza individualizzata del paziente, come già accennato, non si è formato o si è formato incompletamente o in modo alterato (“io vuoto” senza contenuti o “contenuti senza un io”). Mancando un punto di centralità e stabilità (a causa dell’incompleta discesa del raggio del Sé nella personalità), gli elementi molteplici e mutevoli della personalità restano deprivati di un centro di riferimento e aggregazione, per cui tendono a scomporsi e dissociarsi. Il paziente resta preda dell’invasione scomposta e incontrollata di contenuti che provengono non solo dalla propria personalità, ma anche da quella degli altri, e anche dall’inconscio collettivo. Non avendo una sua centralità e una chiara identità individuale, egli confonde se stesso con gli altri, i propri contenuti (fisici, emotivi, mentali) con quelli dell’ambiente esterno, del collettivo e del cosmo. Il terapeuta aiuta il paziente psicotico a porsi al centro di se stesso e allo stesso tempo a porre gli altri ed ogni cosa al loro centro. Insomma il paziente viene aiutato a tracciare dei confini tra sé, gli altri, gli oggetti e in generale ogni presenza e forma di esistenza. Egli deve cioè realizzare che “ogni cosa è quello che è”, che “ogni forma di vita ha una sua centralità e dei suoi confini” (e dei contenuti all’interno dei confini). Il paziente percepisce un senso di “sconfinamento”: e non solo non ha chiari i propri confini, ma vede anche tutto ciò che ruota intorno a sé come privo di confini. Quindi per lui tutto si mescola e si confonde, ogni cosa diventa impura e soggetta a mescolanze. Viene a mancare ogni distinzione tra lui, gli altri, le cose, l’universo, Dio. Bisogna restituire a ogni cosa la sua centralità e i suoi confini.

Parallelamente anche il paziente potrà ritrovare il proprio centro e una sua delimitazione, e quindi la propria identità individuale. Il paziente può essere aiutato anche mediante atteggiamenti e/o esercizi specifici, derivati dalla psicosintesi.

È bene però precisare che nei pazienti psicotici, date le difficoltà relazionali, non è semplice l’utilizzazione nel corso degli incontri di tecniche specifiche, vissute per lo più come invadenti e intrusive nella loro intimità. È preferibile, a mio avviso, far scorrere con la maggior naturalezza possibile le affermazioni che seguono nel corso dei colloqui. Oppure, se la relazione terapeutica è sufficientemente buona, è possibile indicare gli esercizi per iscritto e consegnarli al paziente, affinché, se vuole, possa leggerli per conto suo. Fatta questa precisazione, ne indichiamo, a seguire, alcuni:

  • Dis-identificazione dagli altri (Io). Il paziente è invitato a fare le seguenti affermazioni, al fine di distinguere se stesso, il proprio centro e i propri confini da quelli degli altri: “Io sono io e gli altri sono gli altri. Io non sono gli altri, e gli altri non sono me. Io ho un mio corpo e gli altri hanno ciascuno un proprio corpo. Io ho le mie emozioni e gli altri hanno le loro emozioni. Io ho i miei pensieri e gli altri hanno i loro pensieri. Io ho la mia volontà e gli altri hanno la loro volontà. Io sono al centro di me stesso e gli altri sono ciascuno al centro di se stessi”.
  • Identificazione dell’altro (Tu. Similmente il paziente è invitato a pensare-immaginare un oggetto o persona o entità e fare il seguente esercizio di affermazione, al fine di delinearne la presenza e i confini: “Tu non sei me. Tu sei tu. Tu hai un corpo, il tuo corpo. Tu ha delle emozioni, le tue emozioni. Tu hai dei pensieri, i tuoi pensieri. Tu hai una volontà, la tua volontà. Tu sei al centro di te stesso e solo di te stesso”.
  • Auto-identificazione (Io-Mio). Infine il paziente viene invitato al seguente esercizio di affermazione, che ha lo scopo di realizzare il senso del “mio” e l’appropriazione di sé: “Io sono io. Io sono al centro di me stesso. Io ci sono e sono quello che sono. Io ho un corpo, il mio corpo. Io ho delle emozioni, le mie emozioni. Io ho dei pensieri, i miei pensieri. Io ho una volontà, la mia volontà. Io ci sono con tutto me stesso. Io ci sono con tutto ciò che sono e tutto ciò che ho”.

    5. Dis-identificazione dalla patologia mentale. Il paziente, a causa dell’incompleta formazione dell’io, è invaso da contenuti di disgregazione mentale e tende ad identificarsi con sensazioni angosciose di annientamento, destrutturazione e depersonalizzazione (un mio paziente, quando era in preda a questo vissuto, lo chiamava “disintegrazione zero zero”). Oppure l’uomo psicotico riesce a costruirsi un “io delirante persecutorio”, una costruzione patologica del pensiero, mediante la quale cerca di darsi una qualche spiegazione strutturata della sofferenza, che gli permette di mantenere una certa coesione della personalità (che è sempre preferibile al perdersi completamente e definitivamente nel nulla); oppure si costruisce un “io delirante megalomanico”, mediante cui – attingendo forse a una mescolanza di contenuti materno-regressivi, transpersonali e universali – cerca di realizzare un centro di potere e di superiorità, di darsi un valore mediante una deificazione personale, ponendosi al di sopra di tutto e di tutti, avendo così l’impressione di essere inaccessibile e inattaccabile. Insomma il delirio è in fin dei conti un meccanismo difensivo, mediante cui il paziente riesce in qualche modo a dare una spiegazione logica e razionale ai propri vissuti di annientamento, a mantenere un certo grado di sintesi e coesione della sua personalità, e a recuperare un certo grado di auto-stima e senso del valore di sé. Si può comunque gradualmente, nel rispetto di tali meccanismi difensivi, aiutare il paziente a realizzare una certa distanza psichica tra la sua soggettività (il senso dell’io che gradualmente affiora e si forma) e la sua patologia, rappresentata dalla sua angoscia di annientamento totale e dalle sue costruzioni difensive deliranti. Suggerendo al paziente una spiegazione (di cui ha bisogno) meno delirante e sempre più veritiera della sua sofferenza, e col sostegno della nostra presenza accanto a lui, sarà possibile una graduale diminuzione dell’adesione ai contenuti patologici, il riconoscimento della loro natura patologica e un’iniziale critica.

6. Centro di coscienza. La dis-identificazione permette al soggetto di realizzare un certo grado di distanziamento dai propri contenuti psichici e quindi un minor travolgimento da parte della patologia. Essa induce in qualche modo il paziente a identificarsi con un centro distaccato di coscienza (l’”osservatore”, il “testimone”), ma allo stesso tempo lo mette in contatto col suo vuoto interno, col suo permanere in una dimensione “limbica”, da dove percepisce la lontananza dai suoi contenuti e osserva passivamente il loro proliferare disordinato e sconnesso. Il paziente viene a trovarsi nel mezzo tra la spinta all’astrazione e il proliferare incontrollato del concreto, tra un “essere” statico, senza tempo e senza confini, e un “divenire” che si perde e si frammenta negli elementi della sua molteplicità. La coscienza che si viene a realizzare con la dis-identificazione dalla patologia mentale è importante, ma non è sufficiente: è infatti di per sé un’”autocoscienza vuota”, che può essere vissuta anche in modo angoscioso, se non viene riempita da un qualche contenuto vitale, che sia assimilabile e controllabile. Il soggetto si identifica, potremmo dire, col riflesso del Sé, che da solo è luce fredda e astratta, se non può attingere e fare proprio il calore dei contenuti, e dare loro senso e direzione. Egli vede il proprio sfacelo interno, la propria inconsistenza, il proprio vuoto. Assiste alla propria vacuità, e osserva il disordine sconnesso dei contenuti.

7. Centro di volontà. La consapevolezza dunque non basta. La coscienza, di per sé, da sola è troppo passiva: l’osservatore può essere travolto da ciò che vede. Alla visione deve seguire l’azione, la volontà, il possesso. La coscienza deve diventare una “coscienza attiva”. Se alla coscienza non si aggiunge la volontà, allora forse era meglio non vedere. Il terapeuta aiuta il paziente a entrare in contatto col suo potersi sentire un “soggetto che può agire”, cioè un soggetto che non solo vede, osserva e comprende, ma anche che agisce, che è causa di effetti dentro e fuori di sé. Il terapeuta aiuta il paziente a rendersi conto del suo esserci vivo e vitale, incarnato, che si muove nel mondo reale, materiale, oggettivo (e non solo tra i propri fantasmi interni). Il paziente può agire nel mondo, essere causa di effetti concreti, può insomma “fare, disfare e rifare”. La presa di coscienza, l’educazione e lo sviluppo della volontà (mediante il suo “allenamento”) è fondamentale in generale in psicoterapia, e in special modo nei soggetti psicotici, e costituisce il punto di passaggio dalla psicoterapia in senso stretto alla fase (che possiamo considerare psicoterapeutica in senso ampio) della ricostruzione della personalità o riabilitazione.

Bibliografia

Alberti A., L’uomo che soffre, l’uomo che cura, Pagnini, Firenze 1997.
Alberti A., Psicosintesi. Una cura per l’anima, L’Uomo Edizioni, Firenze 2008.
Arieti S. (1974), Interpretazione della schizofrenia, vol. I e II, Feltrinelli, Milano 1978.
Assagioli R. (1965), Principi e Metodi della Psicosintesi Terapeutica, Casa Editrice Astrolabio, Roma 1973.
Caldironi B., L’uomo a tre dimensioni. Colloqui con Roberto Assagioli (19671971), Edizioni il Girasole, Ravenna 2004.
Ey H., Bernard p., brisset cH., Manuale di psichiatria, Masson, Milano 1979.
Frankl V. E. (1956), Teoria e terapia delle neurosi, Morcelliana, Brescia 1962.
Freud S. (1924), La perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi, in Opere di Sigmund Freud, vol. X, Boringhieri, Torino 1966-1980.
Fromm-Reichmann F. (1950), Principi di psicoterapia, Feltrinelli, Milano 1972.
Fromm-Reichmann F. (1952), Some aspects of psychoanalysis and schizophrenics, in Redlich F. C., Brody E. R. (edited by), «Psychotherapy with schizophrenics», International Universities Press, New York.
Jung C.G. (1939), Psicogenesi della schizofrenia, in Opere, vol. III, Boringhieri, Torino 1971.
Laing R.D. (1959), L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale, Einaudi, Torino 2001.
Laing R.D. (1967), La politica dell’esperienza, Feltrinelli, Milano 1976.
Minkowski E. (1927), La schizofrenia, Bertani, Verona 1980.
Sullivan H.S. (1954), Il colloquio psichiatrico, Feltrinelli, Milano 1972.

Note

1 Ey H., Bernard P., Brisset Ch., Manuale di psichiatria, Masson, Milano 1979.
2 Immaginarie per chi guarda da fuori, ma reali per il soggetto che le vive e sperimenta. Di fatto il paziente vive e partecipa di due mondi, entrambi per lui veri.
3 L’angelo del male (La bête humaine) è un film diretto nel 1938 dal regista Jean Renoir.
4 Caldironi B., L’uomo a tre dimensioni. Colloqui con Roberto Assagioli (1967-1971), Edizioni del Girasole, Ravenna 2004, pp. 150-151.
5 Non saranno invece affrontati il trattamento farmacologico, il lavoro ricostruttivo e riabilitativo della personalità, a livello individuale e sociale, e neppure quello, a mio avviso fondamentale, di maieutica dell’anima. Tali temi saranno trattati in altra occasione.
6 Laing R. D. (1967), La politica dell’esperienza, Feltrinelli, Milano 1976, p. 51.
7 La psicoterapia psicosintetica, intesa in senso ampio, comprende anche la parte più specificamente ricostruttiva e riabilitativa della personalità.
8 Fromm-Reichmann F. (1952), Some aspects of psychoanalysis and schizophrenics, in Brody E. R., Redlich F. C. (edited by), «Psychotherapy with schizophrenics», International Universities Press, New York, cit. in Laing R. D. (1959), L’io diviso, Einaudi, Torino 2001, p. 26.
9 Una parte a mio avviso molto importante del lavoro psicoterapeutico nella schizofrenia è la ri-educazione dei sentimenti (per lo più sopiti e sepolti nelle profondità psichiche del soggetto psicotico). Forse il primo sentimento, che tende a riemergere in tali soggetti (nel procedere di una buona psicoterapia), prima ancora che la fiducia, è proprio la speranza. Un mio paziente, di tanti anni fa, quando cominciò a intravedere una via d’uscita dalla psicosi, chiamava questo possibile percorso il “sentiero della dolce speranza”. Questi temi (rieducazione dell’affettività e recupero dei sentimenti spirituali), saranno trattati in altra occasione, nell’ambito del lavoro riabilitativo e della terapia spirituale.
10 Laing R. D. (1959), L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale, Einaudi, Torino 2001, pp. 36-37.
11 Ivi, p. 171.
12 Frankl V. E. (1956), Teoria e terapia delle nevrosi, Morcelliana, Brescia 1962, p. 34.
13 Confronta i meccanismi patogenetici psico-strutturali della schizofrenia, descritti da Silvano Arieti, della “concretizzazione” e “percettualizzazione” dei concetti (Arieti S., 1974).
14 È facile constatare ciò, nella pratica clinica. Quando, per esempio, si ottiene la remissione del delirio e delle allucinazioni mediante una terapia con psicofarmaci antipsicotici, il paziente non dice che le sue convinzioni persecutorie erano errate e che non era vero che gli altri ce l’avevano con lui, ma afferma solitamente che “loro hanno smesso di perseguitarlo”, oppure che “hanno fatto una pausa”, senza comunque riuscire a spiegarne la ragione.
15 Attenua l’angoscia persecutoria.
16 Paleologica, secondo l’Arieti.
17 Un mondo reale sempre più sopportabile.