La formazione dello psicoterapeuta psicosintetista in italia: tradizione e innovazione

Rivista di Psicosintesi Terapeutica – Anno XIX Numero 38, Settembre 2018

LA FORMAZIONE DELLO PSICOTERAPEUTA PSICOSINTETISTA IN ITALIA: TRADIZIONE E INNOVAZIONE

di Virgilio Niccolai
Psicologo, psicoterapeuta e Didatta SIPT, Direttore della Scuola di Psicoterapia Psicosintetica, Collodi. Indirizzo per la corrispondenza: virgilioniccolai@gmail.com

Therapeutic psychosynthesis has always been alive in comparison with other therapeutic models, despite its originality and specificity. The holistic vision that Assagioli has proposed to us is the fundamental aspect of therapeutic practice. The training of psychosynthetic psychotherapists is not only attentive to the contributions of its founder, but to what current clinical and neuroscientific research offers to us for a broader understanding of human nature. Students who want to use the method and techniques of therapeutic psychosynthesis require a thorough knowledge of themselves, since the relationship with the patient is the cornerstone of psychosynthetic psychotherapy.
Keywords: tradition, innovation, analytical techniques, Chiron, mirror neurons, spirituality, biopsychosynthesis.

La psicosintesi terapeutica è da sempre attenta al confronto con altri modelli terapeutici, pur avendo una sua originalità e specificità. La visione olistica che Assagioli ci ha proposto è l’aspetto fondamentale della prassi terapeutica. La formazione degli psicoterapeuti a orientamento psicosintetico non solo è attenta ai contributi del suo fondatore, ma a ciò che le attuali ricerche in ambito clinico e neuroscientifico offrono a noi per una comprensione più ampia della natura umana. Agli allievi che intendono utilizzare i metodi e le tecniche della psicosintesi terapeutica è richiesta una conoscenza approfondita di se stessi, visto che la relazione con il paziente è l’elemento cardine della psicoterapia psicosintetica.
Parole chiave: tradizione, innovazione, tecniche analitiche, Chirone, neuroni specchio, spiritualità, biopsicosintesi.

«Niente è più pratico di una buona teoria.»

Albert Einstein[1]

Il ruolo dello psicoterapeuta sta assumendo una maggiore rilevanza rispetto al passato, ma nello stesso tempo assume sempre più elementi di complessità in una società come la nostra in continua trasformazione, caratterizzata anche da una serie di problematiche economiche e sociali che si stanno acuendo in questo difficile periodo della nostra storia; esse stanno provocando l’insorgenza di disagi e disturbi di tipo psichico e relazionale che si aggiungono a quelli che si verificavano nel recente passato.
I giovani terapeuti pertanto necessitano di una formazione che offra loro l’opportunità di sviluppare competenze sempre più articolate e complesse al fine di aiutare i pazienti a trovare in se stessi le risorse adeguate per sviluppare una soddisfacente resilienza e abilità di coping.
Potranno così superare con più facilità, oltre i normali disagi che l’esistenza presenta a ciascun individuo nel corso del tempo, anche momenti complicati, determinati dalle condizioni sociali e dalla crisi economica che stiamo vivendo ormai da diversi anni.

La psicosintesi è da sempre attenta a tutte le tematiche riguardanti le relazioni interpersonali e sociali dei singoli individui e si propone di favorire lo sviluppo delle capacità di coping che consentano di affrontare positivamente situazioni di disagio e di sofferenza.

L’attenzione a queste tematiche si trova in Assagioli sin dagli inizi dei suoi studi sulla psiche, la cui pubblicazione è avvenuta in una fase molto precoce della sua vita professionale, e analoga attenzione si ritrova anche negli scritti successivi.

Mi sia consentito di esprimere una considerazione del tutto personale. Quando ho iniziato a leggere i libri di Assagioli agli inizi degli anni Ottanta, mi colpì particolarmente la sua capacità di cogliere ciò che la cultura scientifica del suo tempo stava ponendo all’attenzione dei professionisti delle relazioni d’aiuto. Ad esempio fra i tantissimi autori citati nei suoi libri vi è Sullivan, uno dei massimi esponenti della psichiatria e della psicoterapia interpersonale, le cui pubblicazioni risalgono agli anni Quaranta-Cinquanta, ma offrono ancora importanti spunti di riflessione agli psicoterapeuti. Esse venivano proposte a noi studenti durante il percorso universitario presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova negli anni Settanta, e sono ancora scritti preziosi per gli psicoterapeuti perché mettono in risalto l’importanza e la necessità di analizzare e favorire le relazioni interpersonali dei pazienti al fine di raggiungere uno sviluppo armonico della personalità.

La teoria e la prassi psicologica del fondatore della psicosintesi anche oggi continua a essere attenta ai contributi che la ricerca scientifica in ambito psicologico in senso lato propone incessantemente, al fine di cogliere sempre più le cause del disagio psichico e relazionale e di proporre interventi che consentano ai pazienti, se non di guarire, almeno di alleviare lo stato di sofferenza individuale e sociale.

Ritengo pertanto che la tradizione – che consiste nello studio attento degli scritti del fondatore della psicosintesi e dell’uso delle metodiche terapeutiche e autoformative da lui proposte – sia essenziale per la formazione dello psicoterapeuta psicosintetico. Altrettanto essenziale è ciò che potremmo definire innovazione.

Essa si può avere quando approfondiamo i molti contributi che esponenti della psicosintesi hanno prodotto dopo la sua morte e anche i principali studi che oggi le scienze umane in senso lato e la clinica offrono incessantemente a tutti noi. Ciò consente ai nostri allievi di avere una formazione più completa e più rispondente ai bisogni dei pazienti che seguiranno nel corso della loro vita professionale.

Assagioli affermò che il limite della psicosintesi è quello di non avere limiti, ma ciò a mio avviso è la sua più grande caratteristica e ricchezza, perché sa cogliere meglio di altre teorie la complessità della natura umana. Un’altra sua ricchezza credo che possa essere considerata l’assenza di ortodossia.

Il termine ‘ortodossia’, come fa rilevare il Vocabolario online della Treccani, ha origine in ambito religioso e il suo significato è: «retta credenza, purezza di fede, conformità a una determinata religione o chiesa, della quale si accetta integralmente la dottrina (in contrapp. a eterodossia)» e, in senso lato, «conformità, stretta adesione alle regole o ai principi di una scienza, di una corrente, di un partito, di una scuola, nel campo dottrinale, politico, sociale, artistico, ecc.».

Freud, come ben sappiamo, non ammetteva “dissidenze” rispetto alla sua visione e alle sue formulazioni teoriche e cliniche, per cui chi non condivideva le sue idee ha «dovuto fare i conti con critiche feroci»[2] da parte sua (ciò fu anche una delle cause del distacco dal gruppo psicoanalitico di Jung, Adler, Ferenczi, Horney e W. Reich). Freud, scrive Bergmann, riteneva che «il rifiuto di alcune teorie psicoanalitiche di base riflettesse una resistenza di origine psicologica alla verità della psicoanalisi»[3]. Assagioli, anche lui uno dei primi allievi di Freud, si era avvicinato ancora studente di medicina al movimento psicoanalitico e aveva assunto in questo nascente movimento un ruolo attivo. Aveva infatti scritto già nel 1906 un primo articolo su tematiche psicoanalitiche sulla «Rivista di psicologia applicata alla Pedagogia e alla Psicopatologia». Inoltre, nel 1910 aveva discusso la sua tesi di laurea in Medicina con il professor Tanzi, primo in Italia, su tali tematiche.

Come già detto in precedenza, a differenza del suo primo maestro affermava che non esisteva ortodossia nella psicosintesi e che neppure il suo fondatore ne era il portatore. Questa visione aperta e inclusiva ha favorito la possibilità per tutti coloro che si riconoscono in questa teoria e prassi psicologica di offrire il proprio contributo di esperienza e di ricerca. Ciò può renderla sempre più rispondente ai bisogni e alle esigenze delle persone che intendano conoscersi in modo più approfondito o vogliano intraprendere un percorso psicoterapeutico finalizzato a una migliore coscienza di sé, a una maggiore comprensione delle cause profonde dei disagi o delle patologie psichiche. La conoscenza di sé è infatti indispensabile anche per migliorare le relazioni interpersonali e sociali.

L’assenza di ortodossia non significa tuttavia che la psicosintesi possa essere considerata un miscuglio sincretico di teorie e prassi psicologiche e filosofiche, anzi il contrario. Coloro che intendono condividere e utilizzare il modello psicosintetico non possono non accogliere dei punti cardine che la contraddistinguono quali, ad esempio, l’esistenza in ogni essere umano di una dimensione spirituale e di un Sé transpersonale, una visione psicodinamica della vita psichica, l’esistenza dell’inconscio nei suoi vari aspetti e dell’Io o Sé personale come centro di coscienza. L’esistenza di questi punti cardine la caratterizza e la differenzia da altre teorie della personalità che non ammettono ad esempio lo studio della dimensione inconscia per la comprensione della vita psichica, o ritengono la spiritualità unicamente un’illusione collettiva e non una realtà da prendere in attento esame. Ciò tuttavia non significa che chi si riconosce nel modello psicosintetico non possa accogliere tanti interessanti contributi che provengono da tali teorie. Le ricerche portate avanti da molti esponenti di teorie e prassi psicoterapeutiche hanno offerto allo stesso Assagioli e offrono ancora a tutti noi la possibilità di ampliare e innovare le modalità di intervento sia in ambito formativo che psicoterapeutico.

Fatte queste premesse, vorrei iniziare presentando sinteticamente ciò che Assagioli negli anni Sessanta aveva scritto nel capitolo dal titolo Psicologia dinamica e psicosintesi, del libro Principi e metodi della psicosintesi terapeutica. In questo scritto ci fa chiaramente comprendere come la sua visione dell’essere umano e del processo terapeutico si sia formata nei lunghi anni di ricerca interiore, di studio e di pratica clinica, ma anche e soprattutto accogliendo, naturalmente con spirito attento e talvolta anche critico, una parte significativa di ciò che gli studi e le ricerche dei pionieri della psicoterapia avevano presentato nei vari convegni o pubblicato nelle loro opere. Nel sintetico e chiaro excursus che egli fa della ricerca e degli studi effettuati in Occidente e Oriente in relazione alle varie dimensioni della vita psichica e sociale dell’essere umano, possiamo quindi osservare come Assagioli fosse un ricercatore attento a studiare e recepire i contributi più significativi che le scienze mediche, filosofiche, umane e spirituali gli stavano offrendo.

Partendo da Janet, che aveva osservato come una serie di attività psichiche avvenissero alla maniera di automatismi indipendenti dalla coscienza dell’individuo, con conseguente formazione di “personalità secondarie” presenti nella personalità, introduce nella sua teoria l’importante concetto di subpersonalità, un concetto oggi condiviso anche da esponenti di altri indirizzi terapeutici. fn un libro di recente pubblicazione il neuroscienziato D. Siegel parla di Sé multipli o stati della mente differenti e che possono essere «persino in conflitto tra di loro»[4], riferendosi proprio alle varie subpersonalità presenti ali’interno della personalità di ciascuno di noi.

Assagioli, nel capitolo sopra citato, parla brevemente degli studi e delle scoperte fatte da Freud, il suo primo maestro, sui processi psichici inconsci, sullo sviluppo genetico, sulle diverse patologie psichiche, e su tanti aspetti della vita quotidiana che gli individui vivono quali ad esempio sogni, dimenticanze, fantasticherie, creazioni artistiche e tanto altro ancora. Pur distaccandosi come altri allievi dalla visione freudiana dell’essere umano, perché considerata parziale e riduttiva, ha ritenuto sempre essenziale l’uso delle tecniche analitiche per l’esplorazione dell’inconscio inferiore.

Assagioli cita inoltre la medicina psicosomatica, una medicina che stava avendo significativi sviluppi già negli anni Quaranta-Cinquanta, e la psicologia della religione che, come egli scrive, «indaga le diverse manifestazioni della coscienza religiosa e degli stati mistici»[5],e in proposito fa riferimento al libro di William James, Le varie forme dell’esperienza religiosa. Uno studio sulla natura umana, un testo pubblicato nel 1902, ma che offre ancora oggi al lettore interessanti argomenti di riflessione.

Ampio spazio inoltre dedica alla psicologia umanistica citando una serie di psicologi e psichiatri che avevano pubblicato interessanti opere sull’argomento, fra cui Allport, Goldstein, Maslow. Fa inoltre riferimento agli studi della psicologia esistenziale di tale epoca e ricorda i principali esponenti di questo importante indirizzo scientifico, fra cui Binswanger e Rollo May e il fondatore della Logoterapia Viktor Frankl. Non possono certo mancare, fra gli scritti che hanno profondamente influenzato lo sviluppo del pensiero di Assagioli, quelli della psicologia transpersonale, di cui egli stesso è stato uno dei principali esponenti; nel capitolo sopra menzionato cita Maslow come promotore e maggior rappresentante di questo importante orientamento della psicologia.

Ricorda anche gli studi di Sullivan sulla psichiatria interpersonale e quelli di esponenti della dinamica di gruppo e dell’antropologia culturale; per quest’ultima importante disciplina scientifica, che ha offerto interessanti contributi allo studio dell’essere umano e delle sue interazioni sociali, menziona Margaret Mead, antropologa americana nota in particolare per i suoi studi sull’adolescenza nelle società primitive.

Nella sua lunga vita di ricercatore, di studioso dell’animo umano e di psicoterapeuta ha potuto così offrire alle scienze umane e alla psicoterapia interessanti e originali contributi, non solo grazie alle sue intuizioni, ma soprattutto grazie alla sua poliedrica formazione culturale. Lo studio attento dei contributi scientifici e delle tecniche provenienti da orientamenti teorici e operativi di cui era venuto a conoscenza è stato essenziale per lo sviluppo della teoria e della prassi psicosintetiche.

Credo inoltre che esso abbia favorito anche l’elaborazione dei diagrammi che comunemente utilizziamo per descrivere la complessità della vita psichica di ciascun individuo, l’ovoide e la stella delle funzioni, con la consapevolezza del fatto che queste mappe sono unicamente un modo per comprendere in modo più approfondito il “territorio” di ciascun essere umano. Analoghi diagrammi li troviamo anche in Freud, Jung e anche nelle opere mistiche di San Giovanni della Croce.

Alcune sue intuizioni sono divenute oggi patrimonio di tante teorie e prassi terapeutiche, talvolta differenti fra loro nella visione della psiche e dello sviluppo socioaffettivo dell’essere umano, quali l’uso delle tecniche meditative, della scrittura e delle tecniche immaginative.

Non possiamo inoltre ignorare il fatto che Assagioli abbia visto l’inconscio, non solo per gli aspetti riguardanti l’ontogenesi e lo sviluppo psicosociale di ciascun individuo, ma anche per quelli più propriamente spirituali; e che abbia compreso come l’inconscio racchiuda in sé anche potenzialità creative, che sono latenti ma che, una volta divenute coscienti, possono essere molto utili per la nostra trasformazione. Definisce questo tipo di inconscio, ‘inconscio plastico’; esponenti di altri orientamenti oggi preferiscono chiamarlo ‘inconscio creativo’. La sua costante attenzione alla disidentificazione, come processo indispensabile per una più dettagliata conoscenza di sé e delle proprie relazioni interpersonali, è oggi ritenuta importante anche da illustri esponenti della psicoterapia psicodinamica, i quali ritengono fondamentale conoscere, anche in fase diagnostica, le varie identificazioni e disidentificazioni che il paziente tende a mettere in atto nella sua vita quotidiana[6].

 

LE TECNICHE ANALITICHE

Assagioli fu uno dei pionieri nella diffusione del nascente movimento psicoanalitico in Italia agli inizi del Novecento e riteneva che le tecniche della psicoanalisi fossero indispensabili per l’indagine di quello che definiva inconscio inferiore, nel quale è depositata buona parte della storia individuale, e che per una buona psicosintesi personale fosse essenziale venire a conoscenza degli aspetti più profondi e significativi di questa storia.
Ciò vale per tutti, ma soprattutto per coloro che intendono intraprendere la professione di psicoterapeuti. Nelle pagine successive ritornerò su questo argomento.
Le tecniche della psicoanalisi hanno subito nel trascorrere degli anni significative trasformazioni fra le quali anche il ruolo più attivo assunto dal terapeuta. Se osserviamo i video didattici di Gabbard[7], possiamo renderci conto di queste trasformazioni rispetto alla prassi terapeutica degli inizi del­la storia psicoanalitica; essi, inoltre, ci permettono di osservare come la psicoterapia psicodinamica abbia recepito tanti contributi che provengono dal­le psicoterapie umanistiche ed esistenziali e anche dalla stessa psicosintesi.

Gabbard (2011) scrive che la psicoterapia psicodinamica contempla non soltanto interventi espressivi, quali l’interpretazione, l’osservazione e la chiarificazione, ma anche la validazione empatica, interventi psicoeducativi e anche consigli ed elogi, interventi questi ultimi che appartengono più propriamente al contesto supportivo.

La psicanalista Regina Pally (2006) scrive che in taluni contesti l’intervento del terapeuta nei confronti del paziente dev’essere più attivo «per trovare il modo di inibire le tendenze ripetitive non adattive, passando a risposte più adattive»[8] e che, insieme alle metodiche tradizionali della psicoanalisi, è necessario «un atteggiamento più attivo che incoraggi un’attenzione conscia focalizzata a faticosi tentativi di trovare e collaudare nuove risposte»[9].

La prassi psicosintetica da sempre è attenta a proporre al paziente, oltre all’indispensabile consapevolezza dei principali aspetti inconsci che determinano il suo comportamento, possibili soprattutto attraverso l’uso di tecniche della psicanalisi, anche la ricerca di risposte più adattive attraverso l’uso di tecniche attive e creative quali, ad esempio, la meditazione, l’uso dei simboli e delle parole-stimolo e la tecnica del modello ideale.

 

IL MITO DI CHIRONE

Irvin Yalom, nel suo libro Il dono della terapia, scrive che esistono due teorie in relazione alla possibilità che il terapeuta possa portare il paziente più avanti di dov’è arrivato lui stesso: la prima sostiene che solo un terapeuta completamente analizzato «può scortare i pazienti verso una risoluzione completa dei problemi nevrotici, mentre i punti ciechi del medico con nevrosi non risolte limitano la quantità di aiuto che possono fornire»[10]; una seconda teoria, ben descritta da Karen Horney, invece sostiene che, se il terapeuta sa rimuovere gli ostacoli, il paziente può raggiungere livelli di integrazione maggiori rispetto al terapeuta che si è preso cura di lui.

A tale proposito ricorda complesse problematiche non risolte da parte dei primi psicoterapeuti che hanno offerto a tutti noi notevoli contributi per la psicoterapia e per lo studio della complessità dell’animo umano e cita Jung, Ernest Jones, Otto Rank e Sandor Ferenczi, e le dispute acerrime che avvenivano nei primi circoli psicanalitici.

Anche Otto F. Kernberg (2012), sempre riguardo a Jung, citando Bergmann, scrive che aderl irresponsabilmente alla cultura nazista, al nazionalismo razzista e all’antisemitismo che tale cultura esprimeva e che ha dato origine alla guerra più cruenta della storia umana. Il ricordare ciò non significa mettere in dubbio l’importanza per la psicologia e la psicoterapia dei preziosi studi effettuati da questi pionieri.

Yalom dice di propendere per la seconda teoria, cioè che se il terapeuta ha la capacità di rimuovere gli ostacoli che impediscono al paziente di autorealizzarsi, il suo processo evolutivo riprenderà naturalmente e potrà anche raggiungere un livello di integrazione superiore a quello che ha raggiunto il suo terapeuta.

La vicenda esistenziale di Freud ci offre interessanti spunti di riflessione in merito alle due visioni descritte da Yalom.

Anna Maria Rizzuto, nel libro Perché Freud ha rifiutato Dio, ripercorre dettagliatamente la storia personale e familiare del fondatore della psicoanalisi, attraverso un’accurata analisi delle più svariate fonti di cui è venuta a conoscenza. In questo scritto afferma che il suo rifiuto della dimensione spirituale fu determinato da complesse problematiche non analizzate e non risolte, derivanti dalla difficile relazione vissuta sia con il padre che con la madre. Il non aver compreso tutto ciò nella sua autoanalisi e anche il voler vendicare gli oltraggi che riteneva di aver subito per l’appartenenza all’ebraismo, secondo la Rizzuto, ha favorito in lui la determinazione a combattere la spiritualità nei suoi vari aspetti. E come il grande condottiero Annibale, a cui il padre Amilcare, quando era ancora bambino, aveva fatto giurare che non sarebbe mai stato amico dei Romani, voleva affermarsi per vendicare la sconfitta subita dal padre per opera loro nella prima guerra punica, distruggendo per sempre la potenza di Roma, così Freud intendeva affermarsi di fronte al mondo vendicando gli oltraggi subiti dal padre in quanto ebreo[11], distruggendo con gli strumenti del metodo psicoanalitico ciò che rappresenta uno dei pilastri dell’umanità: la dimensione spirituale.

L’assenza di adeguati punti di riferimento da parte dei genitori nel corso di tutta la sua esistenza, il distacco traumatico dalla bambinaia che lo portava ad assistere a funzioni religiose in chiese cattoliche nella sua primissima infanzia, tutte queste esperienze non sufficientemente elaborate determinarono lo svilupparsi del suo ateismo e un costante impegno a fare proseliti in tal senso, divenendo il Mosè che avrebbe liberato l’umanità dall’illusione della spiritualità. «Freud si sarebbe assunto, da solo, l’impegno scientifico di liberare l’umanità dalle illusioni religiose, come propria compensazione alle frustrazioni affettive patite; conservando però un’irrisolta nostalgia per una figura significativa di padre e di Dio.»[12]
La Rizzuto ritiene che Freud sia stato “un ebreo senza Dio”, non un “ateo naturale”, come sosteneva Jones.
Ho proposto questa digressione sul rifiuto della dimensione spirituale da parte di Freud per esprimere al meglio il mio pensiero in relazione a quanto afferma Yalom. Se è vero che il terapeuta rimane un essere con problematiche non totalmente risolte, è pur vero che l’assenza o una carente analisi di sé e della propria storia personale può non favorire, anzi ostacolare, il processo evolutivo dei pazienti che segue nella sua pratica professionale.

Fatta questa lunga premessa vorrei descrivere brevemente il mito di Chirone, un mito che ci offre interessanti spunti di riflessione anche per la formazione degli psicoterapeuti.

Chirone era il Centauro più famoso e sapiente, figlio illegittimo del dio Crono che lo aveva generato con Filira. Era nato metà uomo e metà cavallo perché il padre, per nascondere alla sposa Rea la passione che aveva per una delle figlie di Oceano, aveva assunto le sembianze di tale animale.
A differenza degli altri Centauri, che erano rozzi e violenti, egli era saggio e gentile. Era esperto in molte arti, fra cui la musica e in particolare la medicina, e insegnò l’arte medica persino ad Asclepio, figlio di Apollo e dio della medicina. Fu un grande educatore anche di eroi fra cui Achille ed Eracle e soprattutto insegnò agli uomini la venerazione degli dei e l’inviolabilità delle leggi e dei giuramenti. Viveva in una caverna insieme con la moglie Cariclo e lì praticava l’arte della medicina.
Anche Achille andò da Chirone per farsi curare la caviglia che la madre gli aveva bruciato praticando su di lui interventi di magia quando era bambino.

Una freccia avvelenata lanciata dall’amico Eracle, che stava lottando contro i Centauri, per errore colpì Chirone al ginocchio e, nonostante gli sforzi fatti da Eracle per salvarlo, iniziò a patire atroci sofferenze. Per liberarsi da questo incessante soffrire, dopo aver vissuto molti anni in uno stato di continuo patimento, ma ciò nonostante sempre al servizio degli altri, decise di rinunciare all’immortalità, cedendola a Prometeo. Un’altra versione del mito afferma che la decisione di Chirone di morire non derivò dal dolore della ferita, ma dalla stanchezza della sua lunghissima vita.

Il mito ci fa capire che sono state le sofferenze, anche quella di figlio illegittimo, non solo quella della freccia avvelenata, che hanno consentito a Chirone di imparare l’arte della cura nel corso della sua vita. Poteva quindi prendersi cura delle sofferenze degli altri perché aveva costantemente presenti le sue ferite, divenute un simbolico varco d’accesso in cui la sofferenza dell’altro poteva essere da lui vissuta con profonda empatia.

Ciò avviene oggi per ogni buon terapeuta quando è consapevole di essere un guaritore ferito. Jung scriveva che nell’archetipo del guaritore ferito ci sono il guaritore e il ferito.

Il buon terapeuta quindi ha preso contatto con la propria sofferenza e con le proprie ferite e, grazie anche alla lunga analisi personale, le ha potute osservare nei vari aspetti. È riuscito in tal modo a raggiungere un buon livello di integrazione, riconoscendo, come Achille nei confronti di Chirone, di avere bisogno di guaritori che sanno utilizzare le proprie ferite, ormai ben integrate, per prendersi veramente cura dei propri pazienti.

Il pericolo tuttavia che ogni psicoterapeuta può correre è quello di non avere abbastanza consapevolezza delle proprie ferite, per cui in questi casi non può instaurare una soddisfacente relazione empatica e talvolta inconsapevolmente può “usare” e “manipolare” i pazienti, proprio a causa di problematiche non risolte. Purtroppo possiamo venire a conoscenza di queste situazioni sia attraverso la letteratura scientifica (Gabbard G. O. – Lester E. P., 1995), che la pratica clinica.

Assagioli era consapevole di ciò, per cui riteneva che per una buona psicosintesi fosse necessaria un’indagine approfondita della nostra storia personale. Scriveva in proposito:

«Ormai sappiamo che per conoscere veramente noi stessi non basta fare un inventario degli elementi che formano il nostro essere cosciente. Occorre anche una lunga opera di esplorazione delle vaste regioni del nostro inconscio. Anzitutto occorre avventurarsi animosamente nei bassifondi e negli abissi dell’inconscio inferiore per scoprirvi le forze oscure che ci insidiano e ci minacciano; i “fantasmi” e le “immagini” che ci ossessionano e ci dominano subdolamente; le paure che ci paralizzano, i conflitti in cui si logorano le nostre energie. Questo può venir fatto grazie alla psicoanalisi, con lo studio dei sogni, le associazioni libere, quelle provocate da parole-stimolo, il disegno spontaneo, l’analisi dell’attività immaginativa, dei disturbi psichici, degli errori e delle dimenticanze, ecc.»[13]

Il linguaggio sintetico e chiaro del fondatore della psicosintesi non lascia alcun dubbio. Il lavoro analitico su di sé è indispensabile non solo per gli psicoterapeuti, ma anche per tutti coloro che intendono avere una conoscenza più approfondita di se stessi anche al fine di sviluppare una soddisfacente capacità di relazionarsi in modo armonico con gli altri.

I numerosi studi effettuati nell’ambito della psicoterapia dinamica hanno messo in evidenza come la nostra mente tenda a utilizzare tutta una serie di stratagemmi fra i quali i meccanismi di difesa e le resistenze, che, seppur necessari in alcune fasi della nostra esistenza, di frequente impediscono lo sviluppo di una personalità autentica, facendo rimanere gli individui, senza che ne siano consapevoli, in una personalità di sopravvivenza (Finnan e Gila, 1997) o, secondo la visione di Winnicott (1965), in un falso Sé.

Ciò quindi impedisce lo sviluppo di relazioni autentiche e non consente, secondo Maslow (1962), il raggiungimento del bisogno di autorealizzazione, il più evoluto nella gerarchia dei bisogni da lui ben descritta. E il fine della psicosintesi consiste proprio nello sviluppare tutte le nostre potenzialità per arrivare a questo obiettivo.

Nino Dazzi, professore emerito di Psicologia Dinamica alla Sapienza di Roma, nell’Expert Meeting sulle competenze nella ricerca in psicoterapia organizzato dalla FIAP e tenutosi a Roma l’8-9 aprile 2013, affermò che l’efficacia della psicoterapia dipende, oltre che da diversi altri fattori, anche dalla sua durata. Un lungo lavoro dello psicoterapeuta come paziente ritengo possa essere utile, direi indispensabile, per poter svolgere proficuamente il suo lavoro con i pazienti.

Pur condividendo nella sostanza la posizione di Yalom, secondo cui il terapeuta non deve necessariamente aver raggiunto un livello di integrazione maggiore rispetto ai propri pazienti per svolgere in modo soddisfacente il suo lavoro di terapeuta, è altrettanto vero che sue complesse problematiche non adeguatamente analizzate, possono essere di serio ostacolo per l’evoluzione delle persone di cui si prende cura.

È doveroso riconoscere che i primi terapeuti hanno offerto alla psicologia, alla psicopatologia e alla psicoterapia importantissimi contributi che sono ancora la pietra miliare del nostro lavoro e delle nostre conoscenze sulla complessità della mente umana. Sappiamo tuttavia che questi pionieri hanno effettuato percorsi brevi di analisi personale e alcuni di essi solo un’autoanalisi.

L’autoanalisi è senza alcun dubbio uno strumento importante per la conoscenza di sé e al terapeuta psicodinamico credo debba essere richiesta per tutta la vita professionale. I suoi limiti, tuttavia, possono derivare proprio dall’assenza di confronto con altri terapeuti per cui può succedere che importanti aspetti della propria personalità e della storia infantile non vengano alla luce, sia per il meccanismo di difesa della rimozione, sia per inconsce resistenze.

L’interessante lavoro della Rizzuto sulla vita di Freud ne è una chiara testimonianza. Non si può mettere in dubbio la grandezza dell’opera di Freud e l’enorme importanza che il suo pensiero ha avuto per la comprensione dell’essere umano anche nei suoi aspetti più reconditi. Tuttavia, come rilevano Kermberg, la Rizzuto e altri, il suo pensiero nei riguardi della spiritualità è stato con molta probabilità condizionato da complesse dinamiche della vita infantile non elaborate nel corso della sua autoanalisi.

Si può pertanto pensare che l’autoanalisi sia veramente efficace se preceduta da una lunga psicoterapia personale con terapeuti esperti; potrà così consentire successivamente al terapeuta di usare tutti gli strumenti acquisiti in questa particolare e intensa relazione con loro, per riflettere anche da solo su ciò che sta avvenendo nel rapporto con i pazienti, ma non solo con questi ultimi.

Compito della psicoterapia psicodinamica, a cui la psicosintesi appartiene (anche se ha nella sua visione dell’essere umano tanti altri elementi comuni ad altre correnti di pensiero, soprattutto alla psicologia umanistica ed esistenziale e alla psicologia transpersonale), è quello di aiutare il paziente ad avere coscienza del suo mondo interiore e conoscere in modo più approfondito i pattern relazionali e le subpersonalità che si attivano nel quotidiano, per poter gestire nel miglior modo possibile le diverse caratteristiche della sua personalità. Il processo terapeutico, che ha come fondamento lo sviluppo delle capacità di riflessione sul proprio mondo interiore e sulle relazioni interpersonali, offre all’allievo terapeuta la possibilità di acquisire nel tempo gli strumenti che gli consentiranno, anche dopo aver terminato la psicoterapia, di comprendere con più facilità le varie situazioni che la vita gli propone e di potenziare la resilienza e le capacità di mastery.

E ciò, a mio avviso, dovrebbe essere richiesto a tutti coloro che intendono intraprendere la professione di psicoterapeuta. Sappiamo invece che diversi orientamenti terapeutici, ad esempio gli esponenti della terapia sistemica e i cognitivisti, ritengono la psicoterapia personale del terapeuta non necessaria per la formazione dei loro allievi. Essa è tuttavia richiesta da tutte le scuole a orientamento psicodinamico e alcune richiedono agli allievi un numero di ore di terapia personale molto elevato.

Personalmente preferisco utilizzare il termine psicoterapia personale, anziché analisi o psicosintesi individuale, perché ritengo che il futuro terapeuta debba sentirsi prima paziente, riconoscendo in tal modo le sue sofferenze, un necessario primo passo per la sua evoluzione.

Yalom scrive in proposito queste parole rivolte ai terapeuti:

«Se durante la seduta vi sentite annoiati o irritati, confusi, stimolati sessualmente o respinti dal vostro paziente, consideratela un’informazione utile. Questo è precisamente il motivo per cui sottolineo la necessità di una terapia personale per i terapeuti. Se sviluppate una conoscenza profonda di voi stessi, eliminate la maggior parte dei vostri buchi ciechi ed avete una buona base di esperienza con i pazienti, comincerete a capire quanta parte di quella noia e confusione è vostra e quanta invece è provocata dal paziente»[14].

La presenza di disturbi psicotici o gravi disturbi di personalità, quali ad esempio il disturbo schizoide o borderline, credo sia di serio ostacolo per la pratica della psicoterapia. Tali disturbi possono infatti ostacolare lo sviluppo di buone abilità empatiche, indispensabili per il terapeuta. I traumi e le ferite che hanno determinato lo sviluppo di questi disturbi possono seriamente ostacolare la capacità di entrare in profondo contatto con la sofferenza e con le problematiche, talvolta molto complesse, dei pazienti.

 

I NEURONI-SPECCHIO E LO PSICOTERAPEUTA

I recenti studi di neuroscienze ci hanno offerto una serie di interessanti spunti di riflessione sul ruolo dello psicoterapeuta e sulle potenzialità della psicoterapia nelle trasformazioni della personalità e nell’attivazione di nuove connessioni cerebrali che si verificano, non soltanto nei primi anni di vita, ma a tutte le età. LeDoux (2002) scrive che tutte le esperienze di vita lasciano segni duraturi in ciascuno di noi, perché divengono memorie immagazzinate all’interno dei nostri circuiti sinaptici. La psicoterapia, che è anche un’esperienza di apprendimento, provoca sensibili cambiamenti nelle connessioni sinaptiche. «Circuiti cerebrali ed esperienze psicologiche non sono cose distinte, ma due modi diversi di descrivere la medesima cosa.»[15]

Da decenni ci chiediamo quanto la psicoterapia possa modificare in modo significativo e positivo il modo di vivere con noi stessi, i pensieri, le sensazioni, i sentimenti, le emozioni e i valori che indirizzano il nostro comportamento, così da poter interagire con gli altri in maniera più consapevole e armonica. Gli studi sulla ricerca in psicoterapia hanno ormai dimostrato senza ombra di dubbio la sua efficacia; inoltre le ricerche dei neuroscienziati, effettuate attraverso i nuovi strumenti che la bioingegneria ha messo a disposizione della medicina, quali la PET e la fMRI (risonanza magnetica funzionale), hanno potuto dimostrare come la psicoterapia attivi la formazione di nuove aree cerebrali a tutte le età, e come le aree associate a precedenti comportamenti che creavano disagio e sofferenza tendano ad andare in standby (Gabbard, 2010).

La nostra psiche possiede enormi capacità di percezione della realtà, di adattamento all’ambiente, di relazioni e di trasformazione, e questo è dovuto proprio alla meravigliosa complessità del nostro cervello. Tale complessità offre alla mente la possibilità di creare continuamente se stessa attraverso un incessante processo di trasformazione. Siegel ricorda che il nostro cervello ha più di cento miliardi di neuroni e

«ciascun neurone ha, in media, diecimila connessioni, o sinapsi, che lo collegano ad altri neuroni. Soltanto nella porzione del sistema nervoso contenuta nella scatola cranica, ci sono centinaia di miliardi di miliardi di connessioni che collegano i vari raggruppamenti di neuroni in un’ampia rete a tela di ragno. Anche volendo, non potremmo mai vivere abbastanza a lungo per contare tutte queste connessioni sinaptiche.»[16]

Scrive ancora:

«Il cervello è tanto complesso da lasciar sbalordita la sua stessa immaginazione.»[17]

La stupefacente complessità del cervello umano, che oggi abbiamo la possibilità di osservare in modo più approfondito a livello fisiologico, ci sta facendo comprendere più chiaramente ciò che nei millenni della storia umana filosofi, scrittori, poeti, artisti e psicologi avevano espresso nelle loro opere, cioè quali fossero le potenzialità che ogni essere umano ha in se stesso e che, se trova un terreno fertile nel contesto sociale in cui vive, può esprimere. Cozolino (2006) scrive che se i neuroscienziati ci offrono interessanti spunti di riflessione, altrettanto avviene all’inverso; educatori, psicoterapeuti, filosofi, ecc., offrono ai neuroscienziati tanti altri stimoli per le loro ricerche, perché dalla posizione in cui si trovano possono aiutare i ricercatori a sapere dove indirizzare le loro indagini finalizzate a comprendere in modo più dettagliato come si sviluppa il cervello, come apprende e tanto altro ancora.

I libri di neuroscienze danno ampio risalto a un’importantissima scoperta avvenuta quasi per caso negli anni Novanta del secolo scorso nei laboratori dell’Università di Parma da parte di un gruppo di ricercatori coordinati dal professor Rizzolatti: i neuroni specchio. Essi infatti hanno un ruolo essenziale nei processi che interessano le interazioni interpersonali per ciò che concerne le intenzionalità motorie, le espressioni emotive e il linguaggio degli individui con cui entriamo in relazione.

I numerosi studi effettuati da neuroscienziati in tante parti del mondo stanno individuando con ricchezza di particolari le modalità in cui il nostro cervello «è in grado di accedere alla mente altrui servendosi dei meccanismi neurali del rispecchiamento e della simulazione»[18].

Gallese (2007) ha introdotto il concetto di simulazione incarnata o incorporata per spiegare questa tendenza innata dell’essere umano grazie al costante lavoro che il nostro cervello svolge in relazione al comportamento degli altri e, a tal fine, i neuroni specchio e i neuroni specchio super hanno un ruolo di estrema importanza [Rizzolatti (2006), Gallese (2006), Iacoboni (2008)].

Questo sistema neuronale di rispecchiamento ha avuto nel passato e ha ancora oggi enormi implicanze anche per la psicoterapia e per la formazione dello psicoterapeuta. Il paziente infatti nell’incontro con il terapeuta condivide con lui emozioni e intenzioni e ambedue sono interconnessi in modo profondo «a livello biologico e preriflessivo»[19]. Il paziente ha davanti a sé una persona con la quale stabilisce una relazione particolare e molto intensa e interagisce con lei anche simulando involontariamente il suo modo di essere, soprattutto nella prima fase della psicoterapia.

Se tutto ciò diviene un’opportunità che il terapeuta ha per consentire al paziente di poter riprendere il cammino esistenziale per raggiungere una buona armonia e sviluppare relazioni autentiche con gli altri che traumi e ferite avevano ostacolato, è pur vero che serie problematiche di personalità del terapeuta, che il paziente percepisce, come ha scritto Iacoboni, a un livello biologico e preriflessivo, quindi non mediato dagli strumenti della riflessione, possono ostacolare questa sua trasformazione.

Rizzolatti e Sinigaglia (2006) scrivono che il neonato già dopo i primi due tre giorni di vita sa distinguere un volto contento da uno triste e «intorno al secondo terzo mese di vita i bambini sviluppano una “consonanza affettiva” con la madre, al punto da riprodurre in modo più o meno sincronizzato espressioni facciali o vocalizzazioni che ne riflettono lo stato emotivo»[20].

Questa caratteristica dell’essere umano, che si apprende sin dai primi momenti di vita, determina comportamenti di risonanza che possono avere non solo lati positivi, ma anche negativi. Fobie, ansie e stati emotivi negativi possono essere trasmessi attraverso l’osservazione (Cozolino, 2006). Questo contagio emotivo si verifica particolarmente nel contesto della psicoterapia, sia individuale che di gruppo.

Un terapeuta che non ha sviluppato una personalità sufficientemente armonica trasmette involontariamente, in particolare con le espressioni facciali e la postura, i suoi stati d’animo al paziente. Il corpo infatti non può mentire, per cui i nostri vissuti interiori traspaiono anche contro la nostra volontà. Ferrucci (2004) scrive che Assagioli, quando entrava in una stanza, irradiava il suo stato di gioia ai presenti. Quando noi incontriamo persone che sono in uno stato di sufficiente armonia e serenità, riceviamo da loro, attraverso questo contagio emotivo, serenità e benessere. Persone tristi e depresse attivano in noi analoghi stati soprattutto se viviamo uno stato di disagio esistenziale e di vulnerabilità (Cozolino, 2006).

La conoscenza di sé inoltre favorisce in tutti noi, ma in particolare nel terapeuta, lo sviluppo delle capacità empatiche, e ciò ci permette di sviluppare i neuroni specchio super che inibiscono in particolari circostanze l’attivazione dei neuroni specchio “classici”[21]. Questi neuroni impediscono l’imitazione del comportamento altrui. I terapeuti che hanno sviluppato una buona conoscenza di sé possono percepire a livello empatico le sofferenze e i disagi anche espressivi dei loro pazienti, ma grazie ai neuroni-specchio super il processo di simulazione viene inibito, perché gli altri neuroni-specchio che presiedono all’imitazione non si attivano. In tal modo egli può entrare in contatto profondo con i suoi pazienti senza venirne condizionato; può accogliere anzi la loro sofferenza con un atteggiamento di rispetto, di accettazione e di contenimento, favorendo in tal modo la loro evoluzione.

 

LA PSICOSINTESI PERSONALE PER GLI ALLIEVI DELLA SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE

La formazione degli psicoterapeuti della SIPT, prima dell’istituzione delle Scuole di Specializzazione Quadriennali ai sensi della legge 56/89, era particolarmente incentrata sulla psicoterapia personale. Noi futuri terapeuti effettuavamo lunghi anni di psicoterapia personale anche a scopi didattici, al fine di acquisire una più approfondita conoscenza di sé utilizzando tutte le tecniche che la psicosintesi offriva, tecniche mutuate anche dalla psicoanalisi e da altre metodologie terapeutiche. A essa erano associati i seminari didattici, che ci offrivano le conoscenze teoriche e cliniche e gli strumenti operativi necessari per la nostra formazione. In tali seminari, ampio spazio era destinato anche al lavoro personale in gruppo e alle dinamiche del gruppo stesso.

Con l’istituzione della Scuola di Specializzazione riconosciuta dal MIUR, la formazione dello psicoterapeuta a orientamento psicosintetico ha assunto caratteristiche diverse. Ai nostri allievi è richiesto un numero di 500 ore annuali di formazione, comprensive di attività seminariali, lezioni teoriche e tirocinio presso strutture sanitarie pubbliche e private, per 4 anni; pertanto essi sono tenuti a effettuare 2000 ore complessive di formazione per il conseguimento della specializzazione in psicoterapia psicosintetica. La nostra Scuola prevede inoltre un numero di ore di psicosintesi individuale non rientranti nelle ore previste dal MIUR, ma aggiuntive a esse. Fino ad alcuni anni fa erano richieste nel quadriennio almeno 120 ore, ma attualmente, anche per la crisi economica che ha limitato le disponibilità finanziarie dei giovani medici e psicologi, la Commissione dei Didatti ha deciso di ridurre un poco il numero di ore richiesto loro. Diversi allievi, tuttavia, ancora effettuano molte più ore di psicosintesi individuale rispetto alle ore minime richieste. Inoltre, alcuni giovani terapeuti continuano il lavoro personale anche al termine del corso di studi, ritenendo la psicoterapia individuale uno strumento essenziale per un’approfondita conoscenza di sé e per il ruolo professionale che stanno svolgendo.

 

LA FORMAZIONE CLINICA DEI FUTURI PSICOTERAPEUTI A ORIENTAMENTO PSICOSINTETICO

Gli allievi delle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia in Italia possono accedere ai corsi accademici solo se in possesso della laurea in medicina o in psicologia e dell’iscrizione ai rispettivi ordini professionali. Ciò è senza alcun dubbio positivo per l’apprendimento dei contenuti clinici e delle tecniche psicoterapeutiche che vengono loro proposte nei quattro anni della specializzazione e per una formazione più completa dello psicoterapeuta. Le leggi italiane in materia sono considerate all’avanguardia in Europa.

Nella nostra Scuola si dà naturalmente ampio risalto ai contenuti e alle metodiche che la psicosintesi, a partire dal suo fondatore, ha prodotto e produce in ambito clinico e scientifico. La visione unitaria dell’essere umano, in cui soma, psichè e pneuma sono strettamente interconnessi e interdipendenti, è il punto cardine della nostra didattica. A tale proposito vengono insegnati agli allievi non solo i metodi e le tecniche più tradizionali, ma anche le più recenti metodiche psicoterapeutiche, mutuate in parte dagli studi e dalle ricerche effettuate da psicoterapeuti di altri indirizzi, tenendo tuttavia sempre presente la specificità della nostra visione dell’essere umano e della sua natura, al fine anche di evitare un deleterio sincretismo.

Proponiamo pertanto ai nostri allievi, durante le lezioni teoriche e le attività seminariali, anche gli studi più recenti che si sono sviluppati nell’ambito della psicologia e della psicoterapia dinamica, ad esempio quelli effettuati da Bowlby, Stern, Fonagy, Gabbard, Mahler, Kernberg, solo per citarne alcuni, oltre ai classici, Freud, Jung, Sullivan e altri ancora. Diamo inoltre spazio agli studi più recenti relativi alla psicologia umanistica, esistenziale e transpersonale quali, ad esempio, gli studi di Grof, Tart, Yalom, oltre a quelli più classici di Rollo May, Maslow, Allport, ecc.

Nei seminari di biopsicosintesi previsti dal nostro programma didattico proponiamo inoltre le ricerche e gli studi di esponenti della bioenergetica, della psicoterapia organismica e di altre terapie corporee; anche per questi insegnamenti teniamo sempre presente la specificità e le significative differenze del nostro modello rispetto ai modelli proposti dalle diverse scuole di psicoterapia corporea.

Il nostro programma didattico prevede inoltre una serie di lezioni teorico-pratiche riguardanti la psicoanalisi freudiana, la psicologia analitica, la psicoterapia adleriana, la psicoterapia cognitivo-costruttivista, la psicoterapia funzionale corporea, ecc., effettuate da psicoterapeuti afferenti a questi indirizzi. Ciò è molto utile perché consente agli allievi di conoscere, attraverso questi insegnamenti, anche le tante somiglianze che ci sono fra i vari modelli terapeutici. Altre lezioni di psicologia generale, di psicopatologia, di psicodiagnostica vengono effettuate da docenti universitari titolari di queste discipline e da ricercatori o docenti esperti in tali materie.

Negli ultimi anni vengono proposti all’attenzione dei nostri allievi gli studi di neuroscienze cognitive e affettive, in particolare quelli di Siegel, Damasio e Panksepp, e viene favorita la loro partecipazione a importanti congressi nazionali che trattano tali tematiche e l’interazione mente-corpo.

Nella formazione degli psicoterapeuti psicosintetisti trova ampio spazio il processo diagnostico. Si è da sempre discusso sulla necessità o meno della diagnosi in psicologia clinica e nella psicoterapia, ma oggi la maggior parte di coloro che studiano queste problematiche sono concordi nel ritenere che un qualche tipo di diagnosi del funzionamento psichico delle persone con cui ogni clinico abbia un contatto profondo e protratto nel tempo, come affermano Dazzi, Lingiardi e Gazzillo (2009), sia inevitabile.

In psicosintesi, una diagnosi che sappia cogliere non solo gli aspetti patologici, ma anche le potenzialità latenti, le modalità di uso da parte del paziente delle sue funzioni psichiche, la consapevolezza delle principali subpersonalità che attiva nella vita quotidiana e nelle relazioni interpersonali, i valori etici e spirituali a cui fa riferimento, diviene indispensabile per il terapeuta e utile per il paziente stesso. Una diagnosi clinica offre infatti al paziente la possibilità di comprendere meglio il suo mondo interiore, le sue relazioni interpersonali, le sue modalità di interazione con gli altri, e ai clinici la possibilità di un interscambio di informazioni e definizioni condivise all’interno di una visione dinamica di tutti i fenomeni psichici.

La diagnosi idiografica consente di cogliere meglio il vissuto interiore del paziente e le cause prossime o remote dei suoi disturbi, e a tale proposito sono molto utili due manuali diagnostici di tipo psicodinamico che stiamo portando all’attenzione dei nostri allievi durante le lezioni teoriche e i seminari didattici, il PDM e l’OPD, oltre ai manuali di psichiatria e psicoterapia psicodinamica che possono aiutarli a comprendere meglio le cause di certi disturbi psichici e le varie metodiche di intervento psicoterapeutico per favorire, là dove possibile, un significativo miglioramento delle condizioni di vita e delle relazioni interpersonali dei loro pazienti. In relazione alla specificità della diagnosi nella psicoterapia psicosintetica offriamo ai nostri allievi anche il contributo scientifico di due didatti della nostra Scuola, Alberti e Favero (2005), e di alcuni colleghi terapeuti sul processo diagnostico in psicosintesi.

 

CONOSCENZA DELLE COMPETENZE DI BASE E SPECIALISTICHE

La nostra Scuola di Specializzazione è da sempre attenta a fornire ai futuri terapeuti le competenze necessarie per svolgere una professione che diviene sempre più complessa.

L’European Association for Psychotherapy (EAP)[22] ha individuato tredici domini relativi alle diverse competenze e il documento che le descrive in modo dettagliato è stato rielaborato in Italia dalla FIAP e dal CSNP, due associazioni alle quali la SIPT aderisce e con cui collabora attivamente.

Più che di competenze, sarebbe più giusto parlare di abilità che il terapeuta può mettere in atto nella sua professione e che riguardano il sapere, il saper fare e il saper essere che egli acquisisce, non solo negli anni di formazione, ma nella sua pratica professionale e nella formazione permanente a cui è tenuto.

L’EAP ha proposto una distinzione in tre livelli di competenze dello psicoterapeuta:

  • Le competenze di base sono quelle competenze che ogni psicoterapeuta esprime indipendentemente dal modello appreso e utilizzato.
  • Le competenze specifiche sono quelle competenze che appartengono a uno specifico modello psicoterapeutico e che differenziano professionisti di diversi orientamenti.
  • Le competenze specialistiche sono quelle competenze richieste per operare in specifici contesti (per esempio in carcere) o con specifici clienti/pazienti (per esempio i bambini)[23].

Questo documento per sua natura non è statico, ma è sempre in fieri soprattutto per i continui e repentini cambiamenti che la società sta vivendo. La FIAP e il CNSP si sono pertanto prefissati, fra gli altri compiti istituzionali, anche la revisione e l’integrazione dei vari domini qualora ciò si renda necessario per offrire ai terapeuti uno strumento dinamico, che possa sempre individuare i bisogni e le istanze degli individui che hanno in cura.

Attualmente anche noi partecipiamo attivamente alla stesura delle competenze specifiche, che saranno rese pubbliche a breve. Sono stati creati gruppi di lavoro che riuniscono i diversi modelli di intervento psicoterapeutico, al fine di individuare quali sono le abilità specifiche di tali modelli. La psicosintesi è stata inserita nel modello psicodinamico per le sue origini e per la sua teoria, anche se una serie di caratteristiche la possono rendere vicina anche al modello umanistico e a quello gestaltico.

Vorrei descrivere in breve la proposta fatta di recente da Otto Kernberg di creare un dominio della spiritualità, perché tale proposta mi sembra un completamento del complesso documento relativo alle competenze dello psicoterapeuta. In una relazione presentata in Grecia, nel 2008, al Delphi International Symposium e da lui rielaborata nel capitolo “L’emergere di un dominio spirituale” del libro “Amore e aggressività” (2012), egli esprime con estrema chiarezza quali possano essere le funzioni della dimensione spirituale nella vita e nella psicologia di ogni essere umano. Dopo aver descritto, nel precedente capitolo dal titolo “Psicologia dell’esperienza religiosa,” le cause che hanno determinato la visione filosofica di Freud in relazione alla religione e alla spiritualità, egli fa riferimento a diversi psicoanalisti che hanno criticato l’approccio filosofico di Freud, fra cui anche la Rizzuto, «i cui scritti hanno messo in luce la compatibilità delle convinzioni religiose con un’identità psicoanalitica»[24].

Kernberg, in accordo pieno con le posizioni di questi psicoanalisti, propone la creazione di un dominio spirituale che, al pari degli altri, possa diventare un punto di riferimento per tutti gli psicoterapeuti, così da poter comprendere e accogliere le istanze spirituali che i loro pazienti esprimono nei modi più diversi. Questa proposta mi sembra estremamente interessante, e importante anche per noi psicoterapeuti della psicosintesi che abbiamo nel nostro DNA una particolare attenzione alla dimensione spirituale di ogni essere umano, ed è altrettanto interessante che questa proposta provenga da uno dei più eminenti esponenti del mondo psicoanalitico contemporaneo, un mondo nel quale per molto tempo aveva prevalso un’impostazione filosofica atea, molto opinabile anche a detta dello stesso Kernberg.

Lo psichiatra e psicoanalista Manfred Lütz scrive che «l’errore» della psicoanalisi sia stato quello di aver aspirato a divenire una Weltanschauung, «una ideologia che conosceva le risposte ad ogni domanda»[25]; questa posizione di Lütz è condivisa da tanti altri psicoanalisti (Kernberg, 2012). L’edificio antireligioso costruito da tanti esponenti della psicoanalisi e da terapeuti di altri indirizzi, secondo questo autore si basa su un’affermazione indimostrata che Dio non esiste: se si parte da tali presupposti non di­mostrabili allora i comportamenti religiosi possono sembrare strani, se non patologici.

Nel capitolo sopra menzionato Kernberg fa una descrizione molto chiara di quali possano essere le caratteristiche di questo dominio, che spero possa essere inserito in un futuro abbastanza prossimo fra le competenze di base dello psicoterapeuta. Egli ritiene che un adulto, che ha raggiunto un buon livello di maturità, debba possedere un «sistema integrato di valori etici personali e un insieme universale di regole di comportamento, di diritti e responsabilità.”[26] Ciò ricorda molto il richiamo alla responsabilità che l’individuo ha nei confronti degli altri, nel fare scelte e nell’assumere decisioni, espresso da Assagioli (1965), e alla necessità di riconoscere l’importanza dei valori, etico, estetico, noetico e religioso.

Kernberg reputa questo sistema di valori

«un sistema onnicomprensivo e armonico e i suoi principi fondamentali sono l’amore e il rispetto per gli altri insieme a un senso di giustizia universale. Ritengo che queste siano le caratteristiche di una religiosità matura quale funzione psicologica che include la capacità di perdono… Una religiosità matura include anche tolleranza, speranza, fiducia nel bene senza rinnegare il male, e un senso di responsabilità verso i principi morali che corrispondono all’idea comune di umanità. La religiosità matura include il riconoscimento del bisogno di investire nel lavoro e nella creatività quale contributo al bene e lottare contro la distruttività. Infine la religiosità matura include il rispetto per i diritti degli altri… »[27].

Mi sembra che queste frasi di Kernberg possano essere una base condivisibile da tutti gli approcci psicoterapeutici su cui strutturare un dominio della spiritualità, un dominio in cui le relazioni d’amore, la bellezza, i valori spirituali e un senso trascendente di giustizia possano trovare la loro collocazione. Non è certo compito dello psicoterapeuta stabilire l’esistenza o la non esistenza di Dio. Egli tuttavia ha il dovere etico di accogliere quelle che possono essere le istanze, le credenze, i valori etici e spirituali di cui il paziente è portatore, senza esprimere alcuna valutazione negativa in merito, cosa che purtroppo di frequente avviene nella pratica clinica.

Una definizione più precisa della religiosità matura, elaborata in un apposito dominio, può aiutare il terapeuta a comprendere meglio quelle manifestazioni di tipo patologico che talvolta si presentano anche nelle pratiche e nelle credenze spirituali, che possono essere determinate da problematiche inconsce presenti nel paziente o da veri e propri disturbi patologici, ad esempio il disturbo ossessivo compulsivo, un disturbo peraltro presente anche in persone atee o agnostiche, quindi non strettamente correlato con la visione spirituale della vita.

Ritengo che la psicosintesi possa offrire un notevole contributo alla strutturazione di questo dominio, ed è interessante che l’uso del termine ‘spirituale’, in sostituzione di quello ‘transpersonale’, trovi oggi sempre maggiore spazio nei convegni e negli scritti di psicologi e psicoterapeuti, e lo scritto di Kernberg offre senza dubbio uno stimolo significativo alla comprensione della natura umana in cui soma, psychè e pneuma sono strettamente interconnessi.

 

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[1] Goldberg E. (2005), Il paradosso della saggezza, TEA, Milano 2012, p. 260.
[2] Kernberg O. F. (2012), Amore e aggressività. Giovanni Fioriti, Roma 20I 3, p. 292.
[3] Ivi, p. 291.
[4] Siegel D. J., Mindsight, Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 215.
[5] Assagioli R. (1965), Principi e metodi della psicosintesi terapeutica, Casa Editrice Astrolabio, Roma 1973, p. 20.
[6] Vd. Dazzi N., Lingiardi V., Gazzillo F. (a cura di), La diagnosi in psicologia clinica. Raffa­ello Cortina. Milano 2009.
[7] CD allegato al libro di Gabbard G. O., Introduzione alla psicoterapia psicodinamica. Raffaello Cortina, Milano 2011.
[8] Pally R. (2006), in Mancia M., Psicoanalisi e neuroscienze, Springer-Verlag Italia, Milano 2007, p. 206.
[9] Ibidem.
[10] Yalom I. D. (2002), Il dono della terapia, Neri Pozza, Vicenza 2014, p. 111.
[11] L’episodio del cappello raccontato da Freud ne L’interpretazione dei sogni ci dice molto delle dinamiche fra lui e il padre: «”Passa un cristiano e con un colpo mi butta il berretto nel fango urlando: ‘Giù dal marciapiede, ebreo!’”. “E tu che cosa facesti?”, domandai io. “Andai in mezzo alla via e raccolsi il berretto”, fu la sua pacata risposta. Ciò non mi sembrò eroico da parte di quell’uomo grande e robusto che mi teneva per mano. A questa situazione, che non mi soddisfaceva, ne contrapposi un’altra, molto meglio rispondente alla mia sensibilità, la scena cioè in cui il padre di Annibale, Amilcare Barca, fa giurare al figlio davanti all’ara domestica che si vendicherà dei Romani. Da allora in poi Annibale ha avuto un posto nelle mie fantasie»; Freud S., Opere, vol. 3, Bollati Boringhieri, p. 186. Scrive la Rizzuto: «Il bambino a cui il padre aveva predetto che da lui non ne “sarebbe venuto fuori niente” aveva rimosso la sua collera, la sua interna sofferenza e aveva fatto di se stesso il nuovo Mosè»; Rizzuto A. M. (1998), Perché Freud ha rifiutato Dio?, Centro Scientifico Editore, Torino 2000, p. 148.
[12] Rizzuto A. M. ( I 998), op. cit., p. XVI.
[13] Assagioli R. ( I 965), op. cit., Casa Editrice Astrolabio, Roma I973, p. 27.
[14] Yalom I. D., op.cit., p. 76.
[15] LeDoux J., Il Sé sinaptico, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 364.
[16] Siegel D. J., op.cit., p. 49.
[17] Ibidem.
[18] Iacoboni M., I neuroni specchio, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 226.
[19] Ivi, p. 229.
[20] Rizzolatti G., Sinigaglia C., So quel che fai, il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina, Milano 2006, p. 169
[21] Iacoboni M. op. cit., p.18.
[22] http://www.psychotherapy-competency.eu
[23] http://www.fìap.info/wp-content/uploads/2015/04/competenze-professionali.pdf
[24] Kernberg O., Amore e aggressività, Giovanni Fioriti, Roma 2013, p. 332.
[25] Lütz M., Dio, una piccola storia del più grande, Queriniana, Bologna 2008, p. 25.
[26] Kernberg O., op. cit., p. 332.
[27] Ivi, p. 333